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Universidade Federal de Santa Maria

Voluntas, Santa Maria, v. 15, n. 1, e89186, 2024

DOI: 10.5902/2179378689186

ISSN 2179-3786

Submissão: 11/07/2024 Aprovação: 17/12/2024 Publicação: 18/12/2024

1 INTORNO ALLA FACOLTÀ ANIMALE DELL’INTELLETTO: INTUIZIONE, RAPPRESENTAZIONI E CENTRI PATICI 2

2 IDENTITÀ DEL WILLE E UNITÀ DIONISIACA. 9

3 L’ATTIMO E L’ETERNO. RAGIONE, MEMORIA E TEMPO.. 13

REFERÊNCIAS. 20

 

Estudos Schopenauerianos

Metafisica immanente e «senso della terra». Note sull’animalità tra Schopenhauer e Nietzsche

Immanent metaphysics and «sinn der erde». Remarks about animality in Schopenhauer and Nietzsche

Fiorella GiaculliIÍcone

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I Universität Neapel Federico II , Nápoles, NA, Itália

RIASSUNTO

Il seguente articolo intende presentare alcuni aspetti dell’interpretazione schopenhaueriana e nietzscheana dell’animalità, interrogando i significati principali del «Thier», da un punto di vista gnoseologico, genealogico, metafisico ed etico. Al di là di alcune differenze interpretative tra Schopenhauer e Nietzsche, la risposta primaria alla domanda Che cosa significa animale? sembra essere la stessa, e si configura come una consonanza ermeneutica secondo la quale l’animale simboleggia primariamente l’immanenza.

Palavras-chave: Schopenhauer; Nietzsche; Animale; Immanenza

ABSTRACT

This paper aims at illustrating some aspects of Schopenhauer and Nietzsche’s interpretation of animality by investigating the main meanings of «Thier», from a gnoseological, genealogical, metaphysical, and ethical point of view. Beyond some interpretative differences between Schopenhauer and Nietzsche, the essential answer to the question What does animal mean? seems to be the same, and it represents a hermeneutic consonance according to which the animal mainly symbolizes immanence.

Keywords: Schopenhauer; Nietzsche; Animal; Immanence

1 Intorno Alla facoltà animale dell’intelletto: Intuizione, rappresentazioni e centri patici

La riflessione sull’animalità attraversa l’intero corpus schopenhaueriano e si delinea come sguardo plurale: metafisico, gnoseologico ed etico è il punto di vista principale che interroga il significato della Thierheit e che ravvisa entro queste prospettive le accezioni essenziali dell’animale. Anche Nietzsche attribuisce al Thier molteplici significati, indagati entro una sistematicità differente rispetto al suo educatore[1]. Tentativo di questo scritto è tratteggiare i significati fondamentali che i due filosofi conferiscono all’animale, mettendo in luce il valore essenziale dell’animalità, ovvero l’immanenza, e sottolineando la contiguità ermeneutica tra i due tedeschi (non certo priva di dissomiglianze), che costituisce una rivalutazione dell’animalità, e dunque, con essa, dell’uomo e della natura.

Sin dal saggio sulla visione, seppur come «un primo rudimento», Schopenhauer individua nella conoscenza intuitiva, propria dell’intelletto, il tratto precipuo dell’animalità. Pertanto, all’interno di una concezione gradualistica della natura, in cui l’inorganico è privo di conoscenza, nel vegetale balugina qualcosa che non può dirsi propriamente conoscenza, l’animale costituisce l’ingresso della conoscenza e della coscienza nella natura, tant’è che per Schopenhauer l’espressione «coscienza animale [animalisches Bewußtseyn]» è una tautologia[2]. In altri termini, è nella natura animale che si delinea il rappresentativo in senso proprio, cioè quello scindersi in soggetto e oggetto che designa la relazione conoscitiva. Infatti, sin dalla prima pagina del Mondo come volontà e rappresentazione, Schopenhauer scrive che la Welt als Vorstellung si dà in rapporto a ogni essere vivente e conoscente, «sebbene l’uomo soltanto possa tradurrla [la rappresentazione] nella coscienza riflessa, astratta» (W I, p. 41). L’esistenza del mondo è dunque «sempre dipendente da questo primo occhio che si aprì, sia pure appartenuto a un insetto, come ciò che necessariamente media la conoscenza» (W I, p. 91).

Questo processo rappresentativo è ricondotto all’intelletto, «una funzione fisiologica del cervello [eine physiologische Funktion des Gehirns]» e facoltà comune a tutti gli animali, sebbene in forme di complessità diverse[3]. La legge principale dell’intelletto è la legge di causalità che concepisce ogni mutamento come effetto e lo pone in relazione con la sua causa; inoltre, insieme alle forme dello spazio e del tempo, di cui la causalità è unione, l’intelletto crea il fenomeno cerebrale del mondo oggettivo e così si rende possibile il processo fisiologico immaginativo-rappresentativo, per cui, come si legge sempre nell’incipit de Il mondo, noi non conosciamo il sole o la terra, ma una mano che tocca la terra e un occhio che vede il sole, e dunque conosciamo un oggetto mediato, dal proprio corpo e dalle forme a priori, che compone l’intuizione.

Il tempo è descritto dal filosofo di Danzica come «la prima battuta del telaio che tesse l’intero universo quale ci si presenta, ed è il supporto di tutte le nostre concezioni intuitive»; lo spazio come il «primo filo conduttore del tessuto su cui poi si riporta il variopinto mondo degli oggetti» (P II, pp. 60, 63). La causalità, unione soggettiva, intellettiva, a priori, di spazio e tempo, ha il suo riflesso oggettivo nella materia. Solo dunque attraverso questo telaio si rende possibile la conoscenza, che per Schopenhauer, come per Nietzsche, è funzione corporea ed è caratteristica animale; né facoltà dell’anima, come una lunga tradizione filosofica aveva corroborato, né facoltà esclusivamente umana: con i due pensatori tedeschi si assiste a una rottura ermeneutica notevole, che reinterpreta corporeità e animalità.

Ricapitolando con un passo emblematico dei Supplementi:

Che cos’è la conoscenza? Essa è innanzi tutto ed essenzialmente rappresentazione. Che cos’è la rappresentazione? Un complicatissimo processo fisiologico nel cervello di un animale, il cui risultato è la coscienza di un’immagine nel cervello stesso. È evidente che il rapporto di una tale immagine con qualcosa di completamente diverso dall’animale, nel cui cervello sussiste, può essere solo un rapporto molto mediato. È questo forse il modo più semplice e comprensibile di svelare il profondo abisso che separa il mondo ideale da quello reale. Questo abisso cioè è una delle cose di cui, come del movimento della terra, non ci si accorge immediatamente; perciò gli antichi non lo avevano notato, come appunto neanche quest’ultimo. […] In verità a noi sono date immediatamente un’esistenza soggettiva e una oggettiva, un essere per sé e un essere per gli altri, una coscienza di noi stessi e una coscienza delle altre cose, ed entrambe sono date in maniera così radicalmente diversa, che nessun’altra diversità è pari a questa. Di sé ognuno sa immediatamente, di ogni altra cosa solo mediatissimamente. Questo è il fatto e questo il problema (W II, p. 1367).

Questo processo fisiologico, iconico-conoscitivo, è caratteristica propria del vivente animale ed è pertanto, entro una prospettiva cosmica, una caratteristica tarda, secondaria, successiva, come Schopenhauer e Nietzsche corroborano diacronicamente. Basti già solo accostare l’inizio delle Ergänzungen e l’apertura di Über Wahrheit und Lüge im außermoralischen Sinne, per osservare sì la risonanza schopenhaueriana, ma soprattutto la consonanza tra i due filosofi, nel delineare la natura serotina del conoscere, strumento e ausilio per il vivente animale, umano e non umano.

L’immagine formatasi nel cervello è un medium tra il conoscente e il conosciuto ed è rivelatrice di quello iato insolubile, abissale, tra l’ideale e il reale, tra il soggetto e l’oggetto, di cui tuttavia la rappresentazione costituisce il legame. L’immagine di cui discorre Schopenhauer è affine alla metafora di cui scriverà il giovane Nietzsche in Su verità e menzogna in senso extramorale: metafora che è parimenti il risultato di un processo fisiologico ed è non solo il risultato del processo conoscitivo, ma è anche il punto di partenza per la costituzione del linguaggio e del concetto. Tale immagine o metafora cambia moltissimo tra gli animali, essendo peraltro determinata dalla struttura corporea e quindi dalle differenti fisiologie. Da qui segue anche l’impossibilità, sia per Schopenhauer che per Nietzsche, di una validità universale del conoscere, per cui la conoscenza umana non può ergersi a paradigma di conoscenza unica e assoluta, ma deve riconoscere che esistono anche altre forme del conoscere e quindi altri conosciuti, altri mondi, altre rappresentazioni. Già solo le parole che aprono la Welt racchiudono in nuce tale concezione, stabilendo un nesso inscindibile tra ogni vivente-conoscente e le rispettive Vorstellungen: «’Il mondo è la mia rappresentazione’: è questa una verità che vale in rapporto ad ogni essere vivente e conoscente, sebbene l’uomo soltanto possa tradurla nella coscienza riflessa, astratta, […].» (W I, p. 41). Non esiste dunque un solo rappresentare, quello umano, bensì una pluralità di rappresentazioni, relata alla molteplicità dei corpi vivi. Del resto, la stessa descrizione del Leib quale «punto di partenza dell’intuizione del mondo» (G, p. 99) o «Ausgangspunkt der Erkenntniß» implica l’eterogeneità del conosciuto, nella misura in cui ciascun corpo, con le sue peculiarità fisiologiche, è portatore e mediatore del conoscere, che dunque non è né può essere unico. In entrambi i filosofi è presente l’esempio dell’insetto, come metonimia indicante che ogni animale, anche il più semplice, è «der bedingende Träger» dell’intuizione, di determinate conoscenze e quindi di determinati mondi[4]. Ciascun animale è creatore di Vorstellungen; ciascun animale è portatore di un centro patico.

Sin nell’incipit di Su verità e menzogna, Nietzsche scrive che «se noi potessimo comunicare con la zanzara, apprenderemmo che anch’essa svolazza nell’aria con questo pathos e si sente appunto il centro svolazzante del mondo» (Nietzsche, 2009, p. 125)[5]. Un centro plasmato dal proprio corpo, e dall’intelletto, che non è univoco ma plurale: diversi sono i centri patici, quello umano non è l’unico, né ancor meno, per Nietzsche, è l’unico vero. Eppure, nonostante questa constatazione, Nietzsche osserva che «[…] all’uomo costa molta fatica ammettere che l’insetto o l’uccello percepiscono un mondo del tutto diverso rispetto a quello dell’uomo, e che chiedersi quale sia la più giusta delle due percezioni è assolutamente privo di senso, poiché qui si dovrebbe misurare in base al paradigma della giusta percezione e cioè in base a un paradigma che non esiste» (Nietzsche, 2009, p. 134). Questo pensiero giovanile sarà riaffermato e corroborato nel corso del tempo e infatti lo troviamo anche tra le annotazioni dei diversi piani dell’opera mai pubblicata Volontà di potenza - essendo il Wille zur Macht un altro modo per dire vivente: «È evidente che ogni creatura diversa da noi percepisca altre qualità e quindi vive in un mondo diverso da quello in cui viviamo noi. Le qualità sono le idiosincrasie proprie di noi uomini: pretendere che queste nostre interpretazioni e valori umani siano valori universali e forse costitutivi è una pazzia ereditaria della superbia umana (Nietzsche, 2008, fr. 565, p. 311)»[6]. Non solo le interpretazioni umane non hanno un valore universale, ma il processo interpretativo è costitutivo del vivente, sia esso organico, conoscitivo o valoriale, giacché è caratteristica della volontà di potenza, quindi del vivente (similmente, per Schopenhauer, il processo rappresentativo è proprio del vivente in quanto tratto essenziale del Wille zum Leben).

Paradigmatico in merito è un frammento pubblicato postumo:

2[148] La volontà di potenza interpreta: nella formazione di un organo si tratta di una interpretazione; essa traccia confini, determina gradi, diversità di potenza. Le mere diversità di potenza non potrebbero ancora sentire se stesse come tali: ci dev’essere qualcosa che voglia crescere e che interpreti sul suo valore ogni altra cosa che voglia crescere. In ciò come --- In verità l’interpretazione stessa costituisce un mezzo per impadronirsi di qualcosa. Il processo organico presuppone costantemente L’INTERPRETARE[7].

Il processo interpretativo, in relazione alla conoscenza, concerne la sfera dell’intelletto, che per ambedue Schopenhauer e Nietzsche è pensato quale mechane, strumento funzionale al vivente al pari degli altri organi necessari alla vita; intelletto che a sua volta è il prodotto di quella volontà di forma, propria del Wille zum Leben come del Wille zur Macht.

«Come», scrive Schopenhauer, «in conformità degli scopi della volontà di una specie animale, quest’ultima appare fornita di zoccoli, artigli, zampe, ali, corna o dentatura, così anche essa è fornita di un cervello più o meno sviluppato, la cui funzione è l’intelligenza richiesta per la sua conservazione» (W II, pp. 1389-1391). Qualcosa di molto simile sarà sostenuto anche da Nietzsche in modo costante, si pensi ancora a Su verità e menzogna in senso extramorale, in cui Nietzsche definisce l’intelletto come «un aiuto allo scopo di trattenerli [gli esseri più transeunti] per un minuto nell’esistenza» (Nietzsche, 2009, p. 126), come uno strumento necessario alla socialità-gregarietà umana, ma anche a una serie di aforismi della Gaia scienza in cui Nietzsche illustra che alcuni aspetti ben precisi del conoscere, come i giudizi sintetici a priori, i concetti di causa ed effetto, una certa logica, nascono come bisogni funzionali alla vita e sono creazioni eminentemente umane - Si pensi ad esempio agli aforismi 110. Origine della conoscenza, 111. Origine del logico, 112. Causa ed effetto, 354. Del genio della specie, 355. L’origine del nostro concetto di conoscenza.

2 identità del wille e unità dionisiaca

La matrice ultima della conoscenza quale mechane è la volontà, di vita e di potenza[8]. Anche in questo elemento creatore vi sono delle somiglianze tra il Wille zum Leben e il Wille zur Macht, al di là delle irriducibili differenze di fondo. La volontà non è portatrice del solo sistema cerebrale, ma è plasmatrice del corpo nella sua interezza, sia esso un corpo umano, animale o vegetale. «Ogni volta che ho trovato un essere vivente, ho anche trovato volontà di potenza», «Solo dove è vita è anche volontà, ma non volontà di vita bensì volontà di potenza» dichiara Zarathustra (Nietzsche, 2010, pp. 130, 132); «La volontà è l’elemento originario e primigenio che tuttavia oggettivandosi, diventando rappresentazione, si chiama corpo» (V II, p. 38), sostiene diacronicamente Schopenhauer.

Nei suoi tratti primari, tra cui il rappresentare (in termini schopenhaueriani) e l’interpretare (in quelli nietzscheani), il Wille accomuna tutti gli animali, in misura differente. È invero l’agognare, fulcro del volere, non solo nell’esprimersi quale Körper e Leib, ma soprattutto nel darsi come affezione e tonalità emotiva, ad essere ciò che accomuna ogni forma di vita, seppur in gradi diversissimi.

L’unità tra i viventi che il Wille zum Leben rappresenta e rende possibile è in Nietzsche espressa dal dionisiaco (e dal Wille zur Macht stesso). Il Dio simboleggia l’unità dell’uomo con gli altri animali, quell’unità in cui il principium individuationis incarnato da Apollo si infrange, evoca inoltre l’unione del divino e dell’animale, rappresenta la natura dell’umano, tra il ferino e il celeste:

Sotto l’incantesimo del dionisiaco non solo si restringe il legame fra uomo e uomo, ma anche la natura estraniata, ostile o soggiogata celebra di nuovo la sua festa di riconciliazione col suo figlio perduto, l’uomo. La terra offre spontaneamente i suoi doni e gli animali feroci delle terre rocciose e desertiche si avvicinano pacificamente. Il carro di Dioniso è tutto coperto di fiori e di ghirlande: sotto il suo giogo si avanzano la pantera e la tigre. […] Ora, nel vangelo dell’armonia universale, ognuno si sente non solo riunito, riconciliato, fuso col suo prossimo, ma addirittura uno con esso, come se il velo di Maia fosse stato strappato e sventolasse ormai in brandelli davanti alla misteriosa unità originaria (Nietzsche, 2008, p. 25).[9]

Questa unità originaria di umano e animale per Nietzsche non è confinata al passato genetico dell’uomo, né al momento artistico-conoscitivo del dionisiaco, ma deve caratterizzare l’esistenza umana nel suo svolgersi. Al contrario, la frattura di tale unità caratterizza quelle concezioni della vita che si pongono agli antipodi della concezione dionisiaca, e che, nel disgiungere animale e umano, non solo disconoscono l'animalità dell’uomo, ma spesso giudicano negativamente il ferino, che corrisponde per lo più a istinto, natura, sensibilità, corpo, aspetti biasimati perché privi di spirito, riconosciuto da una certa tradizione come la vera cifra costitutiva dell’umano[10]. Invece, in Nietzsche tale contrapposizione non si dà, vi è un intreccio di spirituale e istintuale, una coesistenza, e per molti versi una derivazione dell’uno dall’altro, nella misura in cui lo spirituale non è sostanza altra dalla corporeità, ma ne è una sua espressione e manifestazione, difatti una proposta del filosofo risiede nel rivalutare il naturale come qualcosa di buono:

Troppo a lungo l’uomo ha considerato le sue tendenze naturali con un ‘cattivo sguardo’, cosicché queste hanno finito per congiungersi strettamente in lui con la cattiva coscienza. Sarebbe in sé possibile un tentativo opposto? […] vale a dire quello di congiungere indissolubilmente con la cattiva coscienza le tendenze innaturali, tutte quelle aspirazioni al trascendente, all’anti-senso, all’anti-istinto, all’anti-natura, all’anti-animale, insomma gli ideali esistiti sino a oggi, che sono tutti quanti ideali ostili alla vita, ideali calunniatori del mondo (Nietzsche, 2013, pp. 85-86).

Non l’al di là, pensato come ideale ostile alla vita, bensì l’al di qua è l’ideale che afferma e orienta la vita ed è un ideale che l’animale incarna, nella sua naturalità, nei suoi istinti, nella sua conoscenza sensibile e intuitiva, nel suo essere corpo non contrapposto all’anima. L’animale dice (anche) il «senso della terra», e l’oltreuomo può dirsi tale a partire dal riconoscimento della sua animalità[11].  La riflessione nietzscheana intorno al Thier porta con sé un ripensamento dell’animalità e una riposizione dell’uomo al tempo stesso, che ha tonalità cosmologiche: non apicale è la visione dei viventi, la natura è contemplata entro un continuum unitario di «gradi di perfezione», immanente è il mondo creato, difeso, lodato da Nietzsche, e l’animale simboleggia questa Immanenz

Anche per Schopenhauer l’animale rappresenta tale immanenza, a partire dall’intuitivo che incarna, che muove dalla dimensione gnoseologica e che si riverbera sul piano dell’esistenza. Inoltre, il riconoscimento della volontà di vivere quale sostrato comune all’intera natura e dunque a tutti gli animali, in Schopenhauer ha non solo un significato di natura metafisico-ontologica, che sancisce l’unità e identità tra tutte le forme, organiche e inorganiche, ma ha anche implicazioni etiche: per il filosofo di Danzica a partire dal riconoscimento di un comune conoscere, ma soprattutto di un comune volere e patire, dovrebbe conseguire un riconoscimento teoretico-pratico, per cui l’uomo dovrebbe rispettare le altre forme di vita animale e la natura tutta. Comune a qualsiasi coscienza, seppur in gradi diversissimi, è l’elemento dell’affezione, quindi tutta la sfera emotiva, riconducibile alla volontà. Proprio perché per Schopenhauer l’animale è un essere conoscente e senziente, dunque anche sofferente, non può essere maltrattato, e per il filosofo i maltrattamenti dovrebbero essere vietati e puniti legalmente[12]. Non è un caso infatti che alcuni movimenti antispecisti ed ecologisti del ‘900 abbiano trovato in Schopenhauer una fonte filosofica importante a sostegno delle loro concezioni. Già Horkheimer osserva infatti che Schopenhauer ha «giustificato filosoficamente l’amore per il prossimo, anzi per la creatura, senza neanche sfiorare le problematiche affermazioni e prescrizioni delle confessioni religiose», ponendosi al di là della religione e nello stesso tempo in accordo con le scienze (Horkheimer, 2011, pp. 215-216). 

 

3 L’attimo e l’eterno. Ragione, memoria e tempo

Il fulcro del volere accomuna dunque l’intera natura, vivente e inanimata; un prodotto del Wille, l’intelletto, è proprio del regno animale, seppur in gradi differenti; un’altra creazione della volontà nonché funzione corporea, la ragione, è facoltà esclusiva dell’animale umano, sebbene, all’interno di una concezione gradualistica della natura, vi siano dei barlumi di ragione anche negli animali più complessi[13]. Se propria dell’intelletto è l’intuizione, caratterizzata dalle forme a priori di spazio, tempo e causalità, propria della ragione è invece la conoscenza astratta, che trova nel concetto la sua forma per eccellenza. Nella ragione, con tutto ciò che da essa consegue, risiede per entrambi Schopenhauer e Nietzsche la maggiore differenza tra l’uomo e gli altri animali. Il carattere principale della ragione «o della facoltà di pensare [Denkvermögen]» risiede nella «facoltà dell’astrazione o nella facoltà di formare concetti [Abstraktionsvermögen, oder die Fähigkeit, Begriffe zu bilden]», e la congiunzione «oder», sottolinea l’equivalenza tra la ragione e il pensiero e l’astrazione e il concetto. La ragione connota anche la temporalità e la memoria, elementi sui quali sia Schopenhauer che Nietzsche hanno posto l’accento, sottolineando come l’animale non umano abbia una memoria diversa e dunque viva anche una diversa temporalità. Non avendo la ragione, l’animale non pensa né ha memoria in senso proprio, non ha un linguaggio stricto sensu, vive una temporalità limitata; di contro, l’uomo pensa, è animale linguistico, ha memoria, vive un tempo illimitato. Per entrambi i filosofi, il tempo dell’animale è essenzialmente il presente, poiché la sua facoltà, l’intelletto, non gli consente quello sconfinamento temporale che necessita dell’astrazione, propria della ragione umana, per volgere verso un passato lontano o un futuro immaginato. Nondimeno, poiché «tracce» di ragione sono presenti anche negli animali più complessi, giacché la natura non fa salti, gli animali serbano una qualche memoria del passato e hanno previsione del futuro. Tuttavia, in una maniera non commensurabile a quella dell’uomo, che con la sua astrazione può pensare tempi remoti, immaginari, attesi, progettati. In tal senso, il tempo dell’animale è confinato-limitato principalmente al presente dalla sua stessa facoltà intellettiva, mentre quello dell’uomo è privo di tale limite, possedendo egli Verstand e Vernunft. Inoltre, se da un lato la ragione dona all’uomo innumerevoli vantaggi preclusi all’animale, dall’altro risparmia all’animale gli svantaggi di cui essa stessa è portatrice, che per Schopenhauer ruotano attorno al non vero, al non reale, al non possibile: «L’animale non può mai allontanarsi molto dalla via della natura, perché i suoi motivi si trovano soltanto nel mondo intuitivo, dove trova posto solo il possibile, anzi, solo il reale; invece nei concetti astratti, nei pensieri e nelle parole, entra tutto ciò che sia anche solo immaginabile, quindi anche il falso, l’impossibile, l’assurdo e l’insensato» (W II, p.1143).  Per questo, scrive Schopenhauer, l’uomo supera di molto gli animali, i suoi «fratelli irrazionali» sia in «potenza» che in «sofferenza» (W I, p. 103).

Questa via della natura, questo mondo intuitivo tratteggiato da Schopenhauer è anche per Nietzsche la dimensione propriamente animale, che l’uomo deve custodire, benché la sua cifra distintiva risieda nell’astrazione. Nondimeno, un’astrazione che non conserva la sua matrice intuitiva e sensibile rischia con ciò di allontanarsi dalla vita diventando astrazione vuota. Similmente a quella trascendenza che è scarto e altro dalla vita, dal mondo, configurandosi come mero concetto. Non è infatti casuale che il filosofo di Danzica definisca il suo pensiero come metafisica immanente, giacché se è vero che il Wille quale principio è al di là di spazio, tempo e causalità, è ancor più vero che l’immanenza è l’unica realtà in cui e attraverso cui il metafisico dispiega ed esprime il suo significato (cfr. W II, cap. 17 e 50).

Quella che per Schopenhauer è la «conseguenza più immediata» dell’appartenenza al solo mondo intuitivo è «la mancanza di una memoria vera e propria», che determina anche la profonda differenza tra la coscienza umana e quella animale. L’animale propriamente ricorda a partire da quanto si dà nel presente, la sua memoria è dunque legata al tempo che egli vive e all’unica conoscenza per lui possibile, quella intuitiva: «La facoltà mnemonica degli animali è, come tutto quanto il loro intelletto, limitata all’intuitivo e consiste prima di ogni altra cosa meramente in ciò, che un’impressione che ritorna si annuncia come già esistita, in quanto la presente intuizione ravviva la traccia di una precedente; il loro ricordo è perciò sempre mediato da ciò che è attualmente presente». (W II, p. 1127). In altri termini, gli animali vivono solo nel presente; l’uomo vive anche nel passato e nel futuro. Gli animali non hanno del passato, né del futuro, esattamente un’astrazione; conservano immagini, proiettano immagini, a partire dal tempo dell’ora. Diversamente, l’uomo trascina con sé le catene del passato, argomenta Nietzsche nell’Inattuale sulla storia, e anche da ciò deriva quella maggiore potenza, ma anche sofferenza, di cui diceva il suo educatore[14]. La memoria animale necessita di una «traccia» presente, di un’«impressione», di un’intuizione, per rievocare qualcosa del passato o per immaginare qualcosa del futuro; quella umana, invece, ingloba ogni tempo mediante l’astrazione, e queste diverse caratteristiche si riflettono dal piano meramente cognitivo su un piano morale-esistenziale, entro il quale per Schopenhauer e Nietzsche un eccesso di memoria rischia di essere dannoso per la vita e per il vivente. Non ricordare significa, in altri termini, impedire che il passato abbia con il presente un rapporto di necessità, significa rompere questo nesso causale e creare daccapo, contrapponendo la libertà dell’inizio alla necessità del trascorso. È forse questa una delle tesi di fondo di Sull’utilità e il danno della storia per la vita, in cui la critica all’eccesso di storia è critica all’eccesso di memoria, che l’animale non umano non possiede, simboleggiando la capacità di ricordare e di dimenticare al tempo giusto, che l’animale uomo deve recuperare e custodire.

 L’incipit della seconda inattuale si apre con un implicito riferimento al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Leopardi, in cui Nietzsche rievoca la felicità animale legata al presente, alla capacità di obliare, ed estranea al tedio e al dolore[15]. L’uomo, al contrario, porta sempre con sé la «catena» del passato e con essa un peso e la possibilità di una felicità intralciata: «l’animale vive in modo non storico, poiché si rivela come un numero nel presente, senza che ne resti una strana frazione; [...]. L’uomo invece resiste sotto il grande e sempre più grande carico del passato: questo lo schiaccia a terra e lo piega da parte; questo appesantisce il suo passo come un invisibile e oscuro fardello, [...]» (Nietzsche, 2009, pp. 6-7). L’uomo deve dunque apprendere dall’animale la capacità di dimenticare, per vivere; deve, con un’«espressione più dotta», imparare a sentire anche in modo non storico, come sente l’animale[16]. Se in generale l’esortazione nietzscheana di sottofondo è a dimenticare il passato che mummifica la vita, di un individuo, un popolo o una civiltà, l’invito di contraltare è invece a non dimenticare il passato genealogico dell’uomo, portandolo sempre con sé, in un rapporto di continuità e unità del ferino e dell’umano, dell’allora e dell’ora, e del domani. Questa unità tra le forme di vita che il giovane Nietzsche della Nascita esprime attraverso la figura di Dioniso, sarà simboleggiata anche dall’Anticristo e nell’Anticristo, in cui il filosofo riafferma l’origine animale dell’uomo - e con essa molteplici implicazioni[17]. Precisamente, per Nietzsche, l’uomo deve saper dimenticare e ricordare insieme, e la sua capacità di ricordare senza recare danno alla vita dipende dalla sua «forza plastica», dunque da quella «forza di crescere a modo proprio su se stessi, di trasformare e incorporare cose passate ed estranee, di sanare ferite, di sostituire parti perdute, di riplasmare in sé forme spezzate» (Nietzsche, 2009, p. 9). La sua capacità di oblio, di «sedere sulla soglia dell’attimo dimenticando le cose passate», per non correre il rischio di un «eccesso» di storia, che danneggia la vita e la storia stessa, si radica in un ritorno all’animal, che l’uomo sopravanza nella memoria.

L’impossibilità di astrarre si riflette non solo su tutti gli aspetti legati all’astrazione, dal concetto al linguaggio alla memoria, ma più in generale rende gli animali non trascendenti, non «metafisici» direbbe Schopenhauer, non «alati» direbbe Nietzsche, dunque legati all’intuitivo, all’immanente, per cui, se il presente è il tempo per eccellenza dell’animale, l’immanenza è il suo spazio e il suo orizzonte, che anche l’«animale indeterminato» dovrebbe vivere.

«Essere attaccati alla vita in modo così cieco e pazzo, per nessun premio superiore, […] questo vuol dire essere un animale» (Nietzsche, 2009b, pp. 47-48), scrive Nietzsche nell’inattuale dedicata a Schopenhauer, in un passaggio in cui contrappone all’animale i «non-più-animali», cioè l’artista, il santo e il metafisico, che invece ripongono nell’oltremondano un fine e una giustificazione del mondano.

L’attaccamento cieco senza nessun premio superiore del Nietzsche della terza inattuale contiene forse in nuce il «senso della terra» zarathustriano e dunque anche la lode all’immanenza, con tutti i suoi valori e ideali, immanenza che affonda le sue radici nell’intuitivo, che per Schopenhauer è l’unico mondo dell’animale ed è anche l’unico mondo in cui il principio metafisico della volontà può dirsi e darsi. Non a caso, per Schopenhauer, sono i corpi, e non i concetti, a rivelare la volontà. Anch’essa «cieca», nel suo attaccamento alla vita. L’immanenza si configura dunque come quell’unico spazio in cui l’«animale originario», cioè la volontà, si manifesta e si fa rappresentazione, esprimendosi massimamente nel suo attaccamento all’intuitivo, nella vita animale, quell’attaccamento che Nietzsche definisce «pazzo» perché tutto rivolto al mondano, nella sua tragicità e corporeità; immanente è anche l’orizzonte di senso in cui l’«oltreanimale» compie la sua natura umana, nel serbare la sua origine e le sue tracce animali.

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Contributo autoriale

1 – Fiorella Giaculli

Doutoranda em Ciências Filosóficas pela Universidade de Nápoles "Federico II" https://orcid.org/0000-0001-5674-9465 • fioregiaculli@gmail.com

Contribuição: Escrita – Primeira Redação

Come citare questo articolo

GIACULLI, F. Metafisica immanente e «senso della terra». Note sull’animalità tra Schopenhauer e Nietzsche. Voluntas: Revista Internacional de Filosofia, Santa Maria - Florianópolis, v. 15, n. 1, e89186, p. 01-18, 2024. Disponível em: https://doi.org/10.5902/2179378689186. Acesso em: dia mês abreviado. ano.



[1] Questo tuttavia non implica, come ha sottolineato Vanessa Lemm, che l’animalità sia in Nietzsche un «random theme», è piuttosto un tema fondamentale della filosofia nietzscheana: cfr. LEMM, 2009, p. 1.

[2] Cfr. W II, p. 1387: «La coscienza ci è nota assolutamente solo come proprietà degli esseri animali: per conseguenza non dobbiamo, anzi non possiamo pensarla altrimenti che come coscienza animale, sicché questa espressione è già tautologica». Per Schopenhauer la differenza fondamentale tra le diverse forme della natura, inorganica, vegetale e animale, risiede nell’elemento della coscienza-conoscenza e nella diversità della causa che le caratterizza. Emblematico a riguardo è un passo dello studio sulla visione: «[...] Stabilirei come segue la differenza tra corpi inorganici, piante e animali: un corpo si dice inorganico quando tutti i suoi movimenti avvengono per una causa esterna, [...]. Pianta è ciò che possiede dei movimenti le cui cause non sono affatto eguali, quanto al grado e agli effetti, e di conseguenza non forniscono la misura per questi ultimi, e non subiscono neppure una eguale reazione: simili cause si chiamano stimoli. [...] Animale, infine, è ciò i cui movimenti non avvengono direttamente e semplicemente secondo la legge di causalità, bensì secondo quella di motivazione, che è la causalità penetrata attraverso la conoscenza e da questa mediata: di conseguenza è animale soltanto ciò che conosce, e la conoscenza è il carattere specifico dell’animalità. [...] È chiaro che, sotto molteplici aspetti, l’animale è in pari tempo pianta, e persino corpo inorganico». (F, pp. 34-35). È questa una posizione che Schopenhauer corroborerà negli anni, apportando aggiunte, integrazioni, ulteriori considerazioni; concezione che, si diceva, si unisce all’elemento della coscienza, che stabilisce la differenza tra i corpi: «È il grado di coscienza che determina il grado di esistenza di un essere» si legge nelle Ergänzungen (W II, p. 1529), e infatti, l’inorganico è inghiottito dall’oscurità del non cosciente, nel regno vegetale iniziano ad apparire flebili luci di conoscenza, che sono così tenui da non potersi definire propriamente tali, dunque solo nel mondo animale sorge il rappresentativo.

[3] Sull’intelletto quale «funzione del cervello; funzione che questo ha imparato così poco dall’esperienza, come lo stomaco ha imparato a digerire o il fegato a segregare la bile», si rinvia a una delle prime tematizzazioni del conoscere e del pensare quali funzioni fisiologiche, presenti sin dalla dissertazione giovanile (cfr. G, p. 68). Anche spazio, tempo e causalità sono concepiti quali «funzioni cerebrali [Gehirnfunktionen]», sono le «modalità in cui si compie nel cervello il processo dell’appercezione oggettiva» (W II, p. 1079). Sull’uguaglianza della funzione principale dell’intelletto tra tutti gli animali, benché in gradi diversissimi, si veda ad esempio W I, p. 75: «L’intelletto è lo stesso in tutti gli animali e in tutti gli uomini, ha in tutti la stessa forma semplice: conoscenza della causalità, passaggio dall’effetto alla causa e dalla causa all’effetto, e niente al di fuori di ciò. Ma i gradi della sua acutezza e l’estensione della sua sfera di conoscenza sono diversissimi, svariatissimi e molteplicemente sfumati, dal grado più basso, [...] fino ai gradi superiori di conoscenza della connessione causale dei soli oggetti mediati fra loro, che va fino alla comprensione delle più composite concatenazioni di cause ed effetti nella natura». Che tutti gli animali abbiano l’intelletto è prerogativa così innegabile e lampante per il filosofo di Danzica, che «l’intelligenza degli animali superiori non sarà messa in dubbio da nessuno, che da colui a cui essa manca» (G, p. 91); inoltre, aggiunge Schopenhauer, «è perfino impossibile di smentire che la loro conoscenza della causalità derivi indubbiamente da una ragione a priori e non solo dall’abitudine di vedere un fatto seguire da un altro», nella misura in cui sia nell’uomo che negli altri animali la conoscenza della causalità è la «condizione prima» dell’intuizione, senza la quale l’intuizione non si renderebbe possibile. Parimenti, che anche lo spazio e il tempo appartengano al soggetto animale, è evidente dall’impossibilità di pensare tempo e spazio come non esistenti. Con due esempi, di cui uno attinto dalla propria esperienza diretta, Schopenhauer chiarisce che l’apriorità della causalità appartiene a tutti gli animali, più e meno complessi: «Poco tempo fa ho fatto mettere nella mia camera da letto davanti le finestre delle tende lunghe fino a terra che si dividono in mezzo, quando si tira un cordone; quando lo feci per la prima volta una mattina, alzandomi, osservai con sorpresa che il mio intelligente ‘pudel’ rimase tutto sorpreso e guardava in su e a lato, cercando la causa del fenomeno, cioè del mutamento, perché sapeva a priori che una causa lo doveva precedere: lo stesso si ripeté pure la mattina seguente. Ma anche gli animali infimi, perfino il polpo [...] ha l’intuizione, dunque l’intelletto, quando, per giungere nella luce più chiara, egli cammina da una foglia all’altra della pianta acquatica, aggrappandosi col suo tentacolo». Ibidem.

[4] Si veda ad esempio W I, pp. 91-93: «[…] la massa originaria ha dovuto attraversare una lunga serie di modificazioni, prima che il primo occhio potesse aprirsi. E tuttavia l’esistenza di tutto quel mondo rimane sempre dipendente da questo primo occhio che si aprì, sia pure appartenuto a un insetto, come ciò che necessariamente media la conoscenza, per cui e in cui quello soltanto è, e senza di cui quello non può neanche essere pensato; giacché esso è semplicemente rappresentazione, e ha bisogno come tale del soggetto conoscente, come portatore della sua esistenza; anzi, quella stessa lunga successione di tempo, riempita di innumerevoli modificazioni, attraverso le quali la materia si elevò di forma in forma, finché si produsse da ultimo il primo animale conoscente, tutto questo tempo stesso è infatti pensabile soltanto nell’identità di una coscienza, di cui costituisce la successione delle rappresentazioni, la forma del conoscere, e al di fuori della quale esso perde assolutamente ogni significato e non è nulla. Così vediamo da una parte che l’esistenza di tutto il mondo dipende necessariamente dal primo essere conoscente, per quanto imperfetto questo possa essere e d’altra parte vediamo che questo primo animale conoscente dipende altrettanto necessariamente e in modo assoluto da una lunga catena, a lui precedente, di cause ed effetti, in cui esso medesimo rientra come un piccolo anello».

[5] Che l’ammissione di centri patici preannunci molteplici conseguenze, è messo in luce da Alicandro, 2024, che così sintetizza le implicazioni scaturenti dai centri di prospettiva: «a) esistono tanti mondi quante sono le forme di vita che “percepiscono”; b) non esiste una “corretta” percezione del mondo; c) ogni forma di vita ha una “omogeneità percettiva” di specie, più o meno salda; d) ogni vivente crede che il mondo sia “esattamente” ciò che è per lui, e in modo “universale”; e) il valutare-misurare è il vero dato primario di ogni forma vivente».

[6] Per quanto legata alla volontà di potenza, la riflessione nietzscheana sul vivente precede di molto questa tematizzazione: basti solo pensare all’idea del filosofo (risalente al ’68), poi abbandonata, di dedicare la sua dissertazione al «concetto di organico da Kant in poi», i cui appunti preparatori contengono concetti sui quali Nietzsche tornerà nell’arco di una vita, come quello di forma, di trasmutazione, individualità plurale, teleologia, di leggi della natura, leggi dell’intelletto. Si veda in particolare Nietzsche, 1993, pp. 132-165.

[7] Si consideri anche: «2 [151] L’interpretare stesso, come una delle forme della volontà di potenza, ha esistenza come un affetto (ma non come un ‘essere’, bensì come processo, un divenire)». Nietzsche, 1975, pp. 126-127.

[8] Si veda ad esempio W I, p. 319: «Originariamente, dunque, la conoscenza in genere, tanto razionale quanto meramente intuitiva, scaturisce dalla volontà stessa, appartiene all’essenza dei gradi superiori della sua oggettivazione come una mera μηχανή, un mezzo per la conservazione [ein Mittel zur Erhaltung] dell’individuo e della specie, altrettanto che ogni organo del corpo».

[9] Circa la consonanza tra l’unità delineata da Schopenhauer e quella tratteggiata da Nietzsche, si veda Colli, 2008, p. 103: «Il grande pensiero. Riconoscere l’animalità nell’uomo, non solo, ma affermare nell’animalità l’essenza dell’uomo: questo è il pensiero pesante, decisivo, foriero di tempesta, il pensiero di fronte al quale tutto il resto della filosofia moderna viene abbassato a ipocrisia. Schopenhauer l’ha enunciato, e Nietzsche ne è stato l’unico esegeta autentico, verificandolo nel campo degli accadimenti umani. L’oscura radice dell’animalità, la cieca volontà di vivere traspare dai miti delle religioni antiche. La matrice indiana è evocata da Schopenhauer; il simbolo di quella intuizione totale, unitaria della vita è il Dio rivendicato da Nietzsche».

[10] Il paradigma massimo della svalutazione di ciò che l’animale simboleggia e della separazione tra l’uomo e gli altri animali è per Nietzsche incarnato dalla concezione ascetica della vita, di cui Nietzsche discorre nella terza dissertazione della Genealogia della morale e di cui la chiusa restituisce non solo la risposta primaria alla domanda Che cosa significano gli ideali ascetici? ma offre anche la misura della divergenza tra una genealogia che vede nell’animale l’origine, la natura e l’orizzonte dell’uomo, e una genealogia che invece disconosce e svaluta la discendenza e natura animale: «[…] questo odio contro il ferino, più ancora contro il corporeo, questa ripugnanza ai sensi, alla ragione stessa, il timore della felicità e della bellezza, questo desiderio di evadere da tutto ciò che è apparenza, trasmutamento, divenire, morte, desiderio, dal desiderare stesso – tutto ciò significa, si osi rendercene conto, una volontà del nulla, un’avversione alla vita, una rivolta contro i presupposti fondamentalissimi della vita, e tuttavia è e resta una volontà!... E per ripetere in conclusione quel che già dissi all’inizio: l’uomo preferisce ancora volere il nulla, piuttosto che non volere…». (Nietzsche, 2013, p. 157). È questo un estratto in cui, al di là della densità concettuale relata alla questione degli ideali ascetici, affiorano alcuni significati chiave dell’animalità. Va da sé che la posizione nietzscheana è diametralmente opposta a quella ascetica e l’intero corpus di opere ne è una testimonianza, ma, limitandosi alla Genealogia, è paradigmatico ed esemplificativo un passo su Colpa e cattiva coscienza: «Non diversamente da quel che deve essere accaduto agli animali acquatici, allorché furono costretti a divenire animali terrestri oppure a perire, si compì la sorte di questi semianimali felicemente adattati allo stato selvaggio, […] a un tratto tutti i loro istinti furono svalutati e ‘divelti’. Dovettero ormai camminare sulle gambe e ‘portare se stessi’, laddove fino a quel momento venivano portati dall’acqua: una spaventosa pesantezza gravava su di loro. Si sentivano inabili alle funzioni più semplici, per questo nuovo mondo sconosciuto non avevano più le loro antiche guide, gli istinti regolativi, inconsciamente infallibili - erano ridotti, questi infelici, a pensare, dedurre, calcolare, combinare cause ed effetti, alla loro ‘coscienza’, […]! […] Tutti gli istinti che non si scaricano all’esterno, si rivolgono all’interno – questo è quella che io chiamo interiorizzazione dell’uomo: in tal modo soltanto si sviluppa nell’uomo quella che più tardi verrà chiamata la sua ‘anima’. L’intero mondo interiore, originariamente sottile come fosse teso tra due epidermidi, si è stemperato e dischiuso, ha acquistato profondità, latitudine, altezza a misura che è stato impedito lo sfogo dell’uomo all’esterno». (NIETZSCHE, 2013, p. 74). Questo processo di interiorizzazione, pur portando a disgiungere interiore ed esteriore, istintuale e psichico, mostra come genealogicamente, secondo Nietzsche, anima e istinto fossero intricati e come l’una fosse scaturita dall’altro. Inoltre, questo processo di educazione degli istinti, o, per usare verbi più nietzscheani, questo addomesticare e ammansire, affinché l’uomo da animale selvatico diventi animale addomesticato e mansuefatto, pertanto anche sociale, se annulla la componente animale, costituisce un movimento dell’uomo contro l’uomo, un rivolgimento dell’«anima animale contro se stessa»; questa violenta separazione dal suo passato d’animale è un «salto e una caduta» nel contempo, e affinché il salto non si risolva in una frattura, per Nietzsche subentra la necessità di un contromovimento di reinterpretazione, secondo cui non soltanto istintuale e razionale devono coesistere, ma si deve riconoscere che coscienza, ragione, anima, hanno una comune matrice animale.

[11] Questa «la grande filosofia», come la definisce Colli, ossia la riconduzione dell’umano all’animale nel segno di una «diversa intensità di vita», ma pur sempre entro una continuità vitale, che fa della ragione esclusiva dell’uomo una facoltà che comunque si radica nel tierisch, da cui dipende e di cui rappresenta un’intensificazione. Tale concezione filosofica accomuna Schopenhauer e Nietzsche, giacché per entrambi anche il tratto più peculiare dell’uomo, appunto la ragione, affonda la sua origine e la sua natura in ciò che propriamente non ha ragione; pertanto, sia l’uomo schopenhaueriano sia l’oltreuomo nietzscheano affermano e racchiudono l’unità e contiguità tra l’uomo e gli altri animali, senza con questo dissolvere le differenze e le specificità dell’uno e degli altri: «La grande filosofia non isola l’uomo dal regno animale, [...] immerge l’uomo nell’animalità e comprende l’uomo – sotto l’aspetto universale della vita – attraverso la sua animalità. Per questo la rinascita della grande filosofia è legata al nome di Schopenhauer, e Nietzsche è un grande filosofo nella misura in cui si rivela l’unico schopenhaueriano autentico. L’uomo non è l’animale razionale che proprio per la sua ragione è superiore agli animali, e l’uomo più alto non è quello che annulla e sottovaluta tutto il resto per essere soltanto ragione. Piuttosto l’uomo è ‘superiore’ agli altri animali per una maggiore intensità di vita, cioè di quel comune patrimonio che è sostanza di lui e degli altri animali: la ragione non è altro che l’espressione visibile di questa maggiore intensità, ma la natura della ragione non è indipendente dall’animalità, ma manifesta appunto questa». Colli, 1982, p. 128.

[12] Si veda ad esempio un passo paradigmatico in P II, p. 496: «Sulla crudeltà contro i cani alla catena: il cane è l’unico vero e fedelissimo amico dell’uomo, e la più preziosa conquista che l’uomo abbia mai fatto, come dice Fr. Cuvier; oltre a ciò esso è un essere estremamente intelligente e di sentimenti fini.  Ed ecco che un simile essere viene legato, come un criminale, alla catena, dove da mane a sera non fa che soffrire per la sempre rinnovata e mai appagata bramosia di libertà e di movimento; la sua vita non è che un lento martirio, e a causa di simile crudeltà, esso finisce per perdere il suo carattere di cane e si trasforma in bestia selvaggia, non fedele e incapace di affezionarsi; diventa così un essere che trema sempre e striscia dinanzi a quel diavolo che è l’uomo! Preferirei essere derubato, piuttosto che aver dinanzi ai miei occhi un simile strazio, se ne dovessi essere la causa. Anche tutti gli uccelli tenuti in gabbia sono una nociva e stupida crudeltà. Questi maltrattamenti degli animali dovrebbero essere proibiti per legge, e la polizia dovrebbe anche qui svolgere la parte assegnata al sentimento di umanità».

[13] Emblematico di questa differenza è il seguente passo della Welt: «L’animale sente e intuisce [empfindet und schaut an]; l’uomo oltre a ciò pensa e sa [denkt und weiß]; entrambi vogliono [wollen]. L’animale comunica la sua sensazione e il suo stato d’animo, con atteggiamenti e suoni; l’uomo comunica all’altro pensieri, con il linguaggio, o nasconde pensieri, con il linguaggio. Il linguaggio è il primo prodotto e il necessario strumento della sua ragione; perciò in greco e in italiano linguaggio e ragione vengono indicati con la stessa parola: λóγος, il discorso. Vernunft viene da Vernehmen, che non è sinonimo di Hören, ma significa la comprensione dei pensieri comunicati con le parole. Solo con l’aiuto del linguaggio la ragione produce i suoi importantissimi effetti, cioè il concorde agire di più individui, la metodica collaborazione di molte migliaia di uomini, la civiltà, lo Stato; e inoltre la scienza, la conservazione dell’esperienza precedente, il compendio di ciò che è comune in un concetto, la comunicazione della verità, la diffusione dell’errore, il pensare e il poetare, i dogmi e le superstizioni» (W I, p. 105). Questo passo contiene anche una differente posizione teorica tra Schopenhauer e Nietzsche, rispetto alla considerazione del Verstellen, nella misura in cui per il primo è tratto riconducibile alla ragione ed è pertanto eminentemente umano, mentre per il secondo è prerogativa dell’intelletto, dunque caratteristica animale – invero, più propriamente, del vivente. A riguardo, si veda lo studio di Alicandro 2023, p. 62 ss.

[14] Circa la diversa temporalità che contrassegna la vita dell’uomo e degli altri animali, Schopenhauer delinea le seguenti differenze: «Essi [gli animali] soddisfano il bisogno del momento; egli [l’uomo] provvede con le disposizioni più indirette per il suo futuro, anzi per tempi che non potrà vedere. Essi sono totalmente commessi all’impressione del momento, all’azione del motivo intuitivo; egli viene determinato da idee astratte indipendentemente dal presente. Attua quindi piani prestabiliti o agisce secondo massime senza riguardo all’ambiente o alle impressioni fortuite del momento: può quindi fare per esempio con calma i preparativi pratici per la propria morte, può dissimularsi fino all’imperscrutabilità, portando con sé il segreto nella tomba, e ha infine una reale scelta fra più motivi: giacché solo in abstracto essi, presenti l’uno accanto all’altro nella coscienza, possono comportare la conoscenza che l’uno esclude l’altro, e misurare così l’uno contro l’altro il loro potere sulla volontà; dopodiché quello preponderante, determinando il tracollo, è la meditata decisione della volontà e palesa come un sicuro segno il suo carattere. L’animale invece è determinato dall’impressione del presente: solo la paura della costrizione presente può domare la sua brama, finché quella paura non sia da ultimo diventata abitudine, determinandolo ormai come tale: questo è l’ammaestramento. [...] L’animale conosce la morte solo nella morte; l’uomo si avvicina con consapevolezza ogni ora alla propria morte, e ciò rende talvolta la vita problematica anche per colui che non abbia già riconosciuto in tutta quanta la vita questo carattere di costante annientamento» (W I, pp. 103-105).

[15] Anche Schopenhauer mette in luce la dedizione animale al presente quale caratteristica estranea all’animale uomo, dedizione che inoltre rappresenta un nucleo della filosofia dello schopenhaueriano Martinetti (si veda in merito Martinetti, 1999). 

[16] Cfr. Nietzsche, 2009, p. 8: «Ma sia nella massima, sia nella minima felicità, è sempre una cosa sola quella per cui la felicità diventa felicità: il poter dimenticare o, con espressione più dotta, la capacità di sentire, mentre essa dura, in modo non storico. [...] Un uomo che volesse sentire sempre e solo storicamente, sarebbe simile a colui che venisse costretto ad astenersi dal sonno, o all’animale che dovesse vivere solo ruminando e sempre per ripetuta ruminazione. Dunque, è possibile vivere quasi senza ricordo, anzi vivere felicemente, come mostra l’animale; ma è assolutamente impossibile vivere in generale senza oblio. Ovvero, per spiegarmi su questo tema ancor più semplicemente: c’è un grado di insonnia, di ruminazione, di senso storico, in cui l’essere vivente riceve danno e alla fine perisce, si tratti poi di un uomo, di un popolo o di una civiltà». Si veda anche ivi, pp. 10-11: «Abbiamo visto invece l’animale, che è totalmente non storico, abita quasi in un orizzonte puntiforme e vive tuttavia in una certa felicità, almeno senza tedio e dissimulazione; dovremo dunque ritenere più importante e originaria la capacità di sentire in un certo grado non storicamente, in quanto in essa si trova il fondamento su cui soltanto può in genere crescere qualcosa di giusto, di sano e di grande, qualcosa di veracemente umano. Ciò che non è storico assomiglia a un’atmosfera avvolgente, la sola dove la vita può generarsi, per sparire di nuovo con la distruzione di quest’atmosfera. È vero, solo per il fatto che l’uomo pensando, ripensando, paragonando, separando, unendo, limita quell’elemento non storico, solo per il fatto che dentro quella avvolgente nuvola di vapore nasce un chiaro e lampeggiante raggio di luce – cioè solo per la forza di usare il passato per la vita e di trasformare la storia passata in storia presente, l’uomo diventa uomo: ma in un eccesso di storia l’uomo viene nuovamente meno, e senza quell’involucro del non storico non avrebbe mai incominciato e non oserebbe mai incominciare».

[17] Cfr. Nietzsche, 2021, pp. 16-17: «14. Abbiamo altrimenti appreso. In tutte le cose ci siamo fatti più modesti. Non deriviamo più l’uomo dallo «spirito», dalla «divinità», lo abbiamo ricollocato tra gli animali. Esso è per noi l’animale più forte, perché è il più astuto: una conseguenza di ciò è la sua intellettualità. Ci guardiamo, d’altro canto, da una vanità che anche a questo punto vorrebbe di nuovo far sentire la sua voce: quella per cui l’uomo sarebbe stato la grande riposta intenzione dell’evoluzione animale. Egli non è in alcun modo il coronamento della creazione: ogni essere è, accanto a lui, su uno stesso gradino di perfezione... [...] Un tempo si vedeva nella coscienza dell’uomo, nello «spirito», la prova della sua origine superiore, della sua divinità: per rendere l’uomo perfetto, gli si consigliò di ritrarre i sensi dentro di sé al modo delle tartarughe, di sospendere pure i suoi rapporti con l’elemento terreno, di deporre la spoglia mortale: in tal modo sarebbe restata di lui la cosa principale, il «puro spirito». [...] Il «puro spirito» è una pura stupidaggine: se detraiamo il sistema nervoso e i sensi, la spoglia mortale, sbagliamo nel calcolo – ecco tutto!».