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Universidade Federal de Santa Maria
Voluntas, Santa Maria, v.12, e09, Ed. Especial: Schopenhauer e o pensamento universal, 2021
DOI: 10.5902/2179378666978
ISSN 2179-3786
Submissão: 30/07/2021 • Aprovação: 27/09/2021 • Publicação: 28/12/2021
Schopenhauer e o pensamento universal
Dottrina del carattere e conoscenza di sé. Il giovane Nietzsche interprete di Schopenhauer a partire dai Beiträge zur Charakterologie di J. Bahnsen.
Doctrine of character and self-knowledge. The young Nietzsche as interpreter of Schopenhauer on the basis of Bahnsen’s Beiträge zur Charakterologie.
Simona ApollonioI
ILiceo Statale “A.Rosmini”, Grosseto, Italia
RIASSUNTO
Il presente saggio mette in evidenza come i Beiträge zur Charakterologie (1867) di Bahnsen abbiano rappresentato un primo filtro interpretativo per la ricezione in Nietzsche di alcuni importanti temi della filosofia di Schopenhauer. Il giovane Nietzsche condivide non solo la critica di Bahnsen al radicale dualismo posto da Schopenhauer tra volontà e intelletto, ma anche la tesi che le inclinazioni intellettuali derivino dalla peculiarità del carattere individuale. Le osservazioni di Bahnsen sulla dottrina del carattere di Schopenhauer rappresentano la chiave interpretativa con cui Nietzsche spiega la sua adesione alla filosofia di Schopenhauer. Dal punto di vista di Nietzsche l’affinità con Schopenhauer è prova di un carattere incapace di soddisfare il suo bisogno metafisico attraverso il ricorso alla religione. Nietzsche concorda anche con Bahnsen sul fatto che l'eccessiva auto-riflessione inibisca l'azione e l'espressione autentica del carattere individuale e, di conseguenza, che la voce dell'istinto sia preferibile alla guida dell'intelletto.
Palavras-chave: Nietzsche; Bahnsen; Schopenhauer; Carattere; Conoscenza di sé; Istinto; Pessimismo; Filologia
Keywords: Nietzsche; Bahnsen; Schopenhauer; Character; Self-knowledge; Instinct; Pessimism; Philol-ogy
Γένοἰ, οἶος ἐσσὶ μαθών
Pindaro, Pitica II, 131
Negli apparati critici dell’edizione italiana delle Opere complete di Nietzsche (2001), G. Campioni segnalava il problema della ricezione dei Beiträge zur Charakterologie. Mit besonderer Berücksichtigung pädagogischer Fragen (1867) di Julius Bahnsen come una lacuna storiografica, tutt’oggi non colmata, nell’ambito della Nietzsche-Forschung) (NIETZSCHE, 2001, 646).[1] Eppure, tra gli esponenti metafisici della Schopenhauer-Schule[2] che hanno condizionato la prima ricezione in Nietzsche della filosofia schopenhaueriana, a Bahnsen è da riconoscere un ruolo non secondario.
Come attestato dall’epistolario, il giovane Nietzsche lesse i Beiträge zur Charakterologie nel tardo 1867, giudicandoli positivamente per quel che concerne i contenuti, ma nutrendo forti (e condivisibili) riserve critiche per la forma stilistica[3]. Nel presente contributo si intende dimostrare come il numero relativamente scarso di tracce di lettura e riferimenti espliciti all’opera di Bahnsen nel Nachlass nietzschiano non siano direttamente proporzionali all’importanza che essa ebbe per la ricezione nietzschiana della dottrina del carattere di Schopenhauer e della connessa questione della conoscenza di sé, e come, per converso, proprio la mediazione dell’opera di Bahnsen su questi temi rappresenti un’imprescindibile chiave interpretativa di Schopenhauer come educatore.
2 La metafisica della volontà nei Beiträge zur Charakterologie di Bahnsen e la prima ricezione della filosofia di Schopenhauer nel giovane Nietzsche come Begriffsdichtung.
Non sembra che Nietzsche si sia accostato ai Beiträge zur Charakterologie perché interessato all’impianto concettuale della caratterologia come scienza – che Bahnsen, con rimando a Schopenhauer, definisce come «fenomenologia della volontà», ossia come «scienza descrittiva» che indaga la volontà «quale appare nelle singole individualità» (BAHNSEN, 1867, 1). Nel corpus nietzschiano sono infatti assenti riferimenti alla dottrina dei temperamenti di Bahnsen, e cioè alla classificazione dei quattro temperamenti della dottrina classica di galenica memoria in funzione del modo in cui la volontà si rapporta ai motivi[4]. Ancor più significativo è come Nietzsche, dopo la lettura dell’opera, non abbia esternato perplessità alcuna circa le “correzioni” che Bahnsen apporta alla metafisica della volontà di Schopenhauer, nel tentativo – in sostanza fallito – di risolvere le aporie del sistema e poterlo conseguentemente assumere quale fondamento metafisico della caratterologia.
La prospettiva pedagogica della sua opera imponeva a Bahnsen di rivedere alcuni fondamentali assunti della metafisica della volontà. A suo giudizio, infatti, il monismo della filosofia di Schopenhauer, secondo cui un’unica volontà come principio metafisico è presente in tutti gli individui, non spiegherebbe perché un individuo reagisca a un motivo piuttosto che a un altro. Egli rilevava come lo stesso motivo sortisca effetti diversi sugli individui non tanto da un punto di vista quantitativo ma qualitativo: si tratta di differenze non «graduali» ma «specifiche» (BAHNSEN, 1867, 51), che restano inspiegabili ammettendo un’unica volontà universale; tali differenze si chiariscono solo supponendo una differenza a livello intelligibile, tanto più che, sottolinea Bahnsen, non sarebbe altrimenti possibile risolvere la questione dell’imputabilità morale (riferendo tutto alla volontà universale quale principio metafisico, l’individuo non è più responsabile delle sue azioni; soggetto dell’imputabilità morale può tuttavia essere solo l’individuo).
L’orientamento pedagogico dei Beiträge zur Charakterologie rendeva inoltre necessario ammettere, contrariamente a Schopenhauer, alcuni margini di modificabilità del carattere individuale; come si vedrà in dettaglio più avanti, tali margini di modificabilità sono individuati da Bahnsen nel fatto che la volontà quale principio metafisico del mondo è da concepirsi in termini dialettici. In Schopenhauer la volontà quale cosa in sé rappresenta un impulso cieco e incessante cui ricondurre l’intrinseca irrazionalità del reale; già nei Beiträge zur Charakterologie, invece, Bahnsen difende la tesi secondo cui a fondamento della realtà non c’è solo opposizione o contrasto, ma autocontraddizione, cui non è data alcuna possibilità di sintesi; anche la realtà che da essa deriva, conseguentemente, non è solo irrazionale, ma contradditoria.
È stato opportunamente rilevato come nell’intento di sviluppare presunti aspetti impliciti della dottrina schopenhaueriana Bahnsen proponga nei Beiträge zur Charakterologie una revisione critica della metafisica della volontà che costituisce già un contributo originale all’interno della Schopenhauer-Schule; si tratta di risultati parziali, poiché Bahnsen, incline a rilevanti sbavature concettuali, in quest’opera non sviluppa ancora tutta la consequenzialità del suo discorso (BEISER, 2016, 238). Nei Beiträge zur Charakterologie sono però poste le premesse di quel sistema della Realdialettica, alla cui compiuta formulazione egli giungerà solo dopo il serrato confronto con Eduard von Hartmann (BEISER, 2016, 232)[5] – Realdialettica che il Nietzsche maturo stroncherà senza mezzi termini ne La gaia scienza (NIETZSCHE, 1965, 357).[6]
Che la revisione critica della metafisica della volontà proposta da Bahnsen nei Beiträge zur Charakterologie non abbia costituito per Nietzsche motivo di rigetto è in verità coerente con la sua prima ricezione della metafisica di Schopenhauer in termini di «Begriffsdichtung», poesia concettuale, il cui valore risiede esclusivamente nel suo contributo all’edificazione morale[7]. Diversamente da quanto narrato nello scritto Sguardo retrospettivo ai miei due anni a Lipsia (1868), Nietzsche non aderì infatti alla filosofia di Schopenhauer per improvvisa conversione, ma solo a seguito della meditata lettura della Storia del materialismo (1866) di F. A. Lange (APOLLONIO, 2017, 271-292). Diversi studi, d’altro canto, hanno dubitato della sincerità di tale conversione adducendo come prova il celebre frammento Su Schopenhauer del 1868, in cui il giovane Nietzsche dimostra l’infondatezza dell’impianto concettuale della metafisica della volontà. Lungi dal costituire una contraddizione rispetto alla sua dichiarata professione di fede schopenhaueriana, il frammento dimostra al contrario come, ancor prima che da Schopenhauer, nel suo tormentato itinerario filosofico Nietzsche sia stato condizionato dal fondamentale imprinting kantiano[8].
La crisi in cui versava Nietzsche allorché si cimentò nella vorace lettura de Il mondo come volontà e rappresentazione affondava infatti le sue radici nel primo anno di studi universitari trascorso a Bonn; qui egli visse non solo la crisi religiosa che lo avrebbe allontanato dalla religione dei padri, ma affrontò, sotto la guida del Prof. Schaarschmidt, lo studio del pensiero di Kant. Perso il criterio di orientamento morale dato dalla religione, egli prese contestualmente coscienza dell’impossibilità di fondare una metafisica come scienza, e conseguentemente, dell’impossibilità di fondare una qualsivoglia morale su base metafisica.
Al di là quindi della profonda sintonia con la Weltanschauung schopenhaueriana, al giovane Nietzsche, alla luce dei risultati ormai acquisiti dalla filosofia di Kant, risulta alquanto problematico difendere la legittimità della metafisica della volontà; come attestato dal suo epistolario (NIETZSCHE, 1976, 462-463)[9], solo a seguito della soluzione rintracciata nell’opera di Lange di conciliare l’adesione alla filosofia di Schopenhauer con il punto fermo messo da Kant circa la possibilità di fondazione della metafisica come scienza egli divenne discepolo, per forza di cose già eretico, di Schopenhauer.
In virtù del suo radicale fenomenalismo di ispirazione kantiana e del riconoscimento della natura irrimediabilmente soggettiva di ogni costruzione concettuale (non esclusa la stessa nozione di cosa in sé) nella Storia del materialismo Lange sosteneva infatti come ogni metafisica conservasse legittimità solo quale edificante «Kunst der Begriffsfügung» (LANGE, 1866, 268)[10], arte del combinare i concetti il cui scopo risiede nell’edificazione morale. Ogni interpretazione filosofica della realtà è secondo Lange da intendersi alla stregua di un poema concettuale, cui è intrinseco uno slancio di matrice religiosa, inteso come bisogno morale. E come «Begriffsdichtung» il giovane Nietzsche – in cui era stato pertanto già piantato il germe del suo atteggiamento antimetafisico – interpreta la filosofia di Schopenhauer, quale visione del mondo maggiormente affine al proprio specifico bisogno morale.
In una lettera a Paul Deussen del 1868, che lo aveva sollecitato a prendere posizione sulle confutazioni della metafisica della volontà, Nietzsche obietta infatti che «non è con la logica che si creano e si abbattono le visioni del mondo», e che ognuno è legittimato a far propria quella visione del mondo che più soddisfa il proprio bisogno etico.
Il meglio che possediamo, e cioè sentirci tutt’uno con un grande spirito, riuscire a seguire il filo dei suoi pensieri in perfetto accordo, aver trovato una patria del pensiero, un luogo di rifugio per i momenti di sconforto: tutto ciò non vogliamo certo portarlo via ad altri, ma non ce lo faremo neppure portare via. Fosse anche un errore, una menzogna (NIETZSCHE, 1976, 534-535).
Questo spiega perché Nietzsche nel frammento Su Schopenhauer si senta legittimato a rilevare l’infondatezza dell’impianto concettuale della metafisica della volontà senza con ciò venir meno al suo credo schopenhaueriano. In modo analogo si spiega come mai Nietzsche non nutra riserva critica alcuna nei riguardi delle obiezioni e alle modifiche che Bahnsen nei Beiträge zur Charakterologie apporta alla metafisica della volontà schopenhaueriana: dal suo punto di vista, infatti, tali modifiche, prima fra tutte l’idea dell’autocontraddizione della volontà con se stessa, non possono toccare l’aspetto fondamentale della questione; ed anzi, proprio un passaggio del frammento Su Schopenhauer suggerisce come Nietzsche fosse disposto ad accoglierne le suggestioni nella direzione della radicalizzazione del pessimismo schopenhaueriano.
Che Schopenhauer non si sia accorto del fallimento del suo tentativo di spiegare metafisicamente il mondo – scrive infatti Nietzsche nel frammento – sarebbe da ricondurre al fatto che egli non volesse sentire «il Contraddicentesi Oscuro [das Dunkle Widersprechende] nella regione dove cessa l’individuazione» (NIETZSCHE, 2001, 220). Il ricorso all’espressione «das Dunkle Widersprechende» è indicativa del confronto Nietzsche con i Beiträge zur Charakterologie, opera nella quale Bahnsen, come si è detto, già propone (se pure non ancora nella forma di un sistema compiuto) la sua interpretazione della realtà in termini dialettici, cui non è data possibilità di sintesi alcuna in virtù della costitutiva auto-contraddizione della volontà con sé stessa quale principio metafisico del mondo.
Come anticipato, nell’autocontraddizione della volontà con sé stessa, nella duplicità delle aspirazioni della volontà individuale che sussistono l’una accanto all’altra, nei Beiträge zur Charakterologie Bahnsen individua alcuni margini di ammissibilità di miglioramento morale, di «cambiamento del contenuto della volontà» inteso come «nobilitazione del carattere sulla via dell’intelletto» (BAHNSEN, 1867, 213), in cui non cambia l’essenza intellegibile dell’individuo, ma solo la direzione della sua volontà.
Secondo Bahnsen «la volontà per mezzo dell’intelletto si accorge con disgusto delle espressioni del proprio contenuto» (BAHNSEN, 1867, 213). Il pentimento [Reue] e il tormento di coscienza [Gewissensangst] costituiscono, a secondo che siano o meno presenti, «un criterio del carattere etico», «l’espressione di una dicotomia dualistica esistente nel carattere individuale stesso» e di quella «doppia legge» si cui si costruisce la possibilità della «autopromozione morale», dell’autoeducazione (BAHNSEN, 1867, 228-229)[11]. Tale intima disapprovazione morale sarebbe indicativa di una inclinazione al bene della volontà, e può sortire un effetto tale per cui «la volontà ordina all’intelletto di guardarsi intorno per cercare forme in cui i suoi scopi potrebbero essere raggiunti in modo meno offensivo» (BAHNSEN, 1867, 213), per vie moralmente accettabili. Tale «tributo al meglio» [Tribut an das Bessere] è garantito da una «voluta educazione dell’intelletto», e poiché «tale formazione richiede meno forza – o meglio non è così impossibile come la rinuncia radicale e improvvisa dei fini stessi – un tale processo implica già un atto di vera e propria auto-educazione, di miglioramento morale» (BAHNSEN, 1867, 215).
È lo stesso Bahnsen a riconoscere tale processo come una particolare forma di ciò che Schopenhauer definisce «formazione del carattere acquisito», rilevando come «anche questo suo caso speciale conservi il suo centro di gravità nelle funzioni intellettuali» (BAHNSEN, 1867, 213). Ciò non significa che la volontà non abbia alcun merito nel processo di autoeducazione: essa deve essere disposta a lasciarsi formare dall’intelletto, che è in grado di presentarle la giusta relazione dei motivi, il loro corretto rapporto rispetto al suo autentico volere, e, quindi, in grado di reindirizzarne l’agire (BAHNSEN, 1867, 216).
Ciò che quindi consente all’individuo di risollevarsi dalla sua condizione di miseria morale è il riscontro dell’efficacia dell’azione morale stessa, la realizzazione concreta dell’agire morale, non la contemplazione del «volto severo della legge inesorabile», che, per converso, inibisce l’agire etico (BAHNSEN, 1867, 218). È questa la ragione per cui Bahnsen ritiene che il caratterologo – analogamente al chimico cui è dato studiare il comportamento delle diverse sostanze solo per tramite dell’osservazione il processo di reazione – debba esaminare il carattere in azione per riconoscere quanto ad esso è peculiare (BAHNSEN, 1867, 56): sono infatti le scelte a rivelare la natura del carattere, e precisamente, la direzione in cui si sceglie di agire in ragione della duplicità intrinseca alla volontà individuale. Non sono le qualità individuali a decidere chi siamo, perché queste, di per sé, hanno un significato adiaforico, moralmente indifferente: è il contenuto specifico dei motivi efficaci su un determinato carattere a costituire il principio di ordinamento per la classificazione etica degli individui, poiché sull’agire possono sortire effetto solo i motivi conformi alla propria natura (BAHNSEN, 1867, 53).
Che dai motivi a cui un individuo reagisce sia possibile evincere il suo carattere vale secondo Bahnsen anche nell’ambito intellettuale. Criticando il radicale dualismo posto da Schopenhauer tra volontà e intelletto, egli rileva come non esista interesse intellettuale senza il coinvolgimento della volontà. Schopenhauer stesso avrebbe definito ogni interesse intellettuale un «correlato del volere» poiché solo in un ambito che suscita interesse è possibile godere di vera gioia teoretica. Conseguentemente, l’appagamento intellettuale costituisce secondo Bahnsen una forma di autoaffermazione della volontà: un assoluto «puro soggetto» privo di ogni volere non proverebbe alcuna gioia teoretica se il «cordone ombelicale» che lega il conoscere alla verità fosse del tutto reciso (BAHNSEN, 1867, 330). Anche nell’istinto di conoscenza – dalla mera curiosità per un ristretto campo del sapere al più alto bisogno metafisico – l’intelletto si dimostra essere μηχανή della volontà, poiché da ciò che un individuo, in virtù delle peculiarità del suo intelletto, è disposto ad accogliere in sé, è possibile inferire la natura del suo carattere: ognuno approfondisce l’oggetto di conoscenza che più è omogeneo alla propria essentia originaria (BAHNSEN, 1867, 175). Il modo in cui un indefinito desiderio di verità si cristallizza in uno specifico interesse per un campo del sapere, osserva Bahnsen, ha il suo fondamento nel «contenuto individuale caratterologico» (BAHNSEN, 1867, 331).
4 I Beiträge zur Charakterologie di Bahnsen come filtro interpretativo della dottrina del carattere di Schopenhauer nel giovane Nietzsche: dallo Sguardo retrospettivo ai miei due anni a Lipsia a Schopenhauer come educatore.
Tracce della ricezione nel giovane Nietzsche dei Beiträge zur Charakterologie sono evidenti nello scritto autobiografico Sguardo retrospettivo ai miei due anni a Lipsia (la cui stesura si colloca tra l’autunno 1867 e la primavera 1868, quindi a ridosso della lettura dell’opera di Bahnsen). Lo scritto è celebre perché qui Nietzsche narra della sua scoperta del capolavoro di Schopenhauer nella bottega del vecchio antiquario Rohn e della sua conseguente conversione alla filosofia schopenhaueriana. È noto trattarsi di un racconto romanzato, non solo poiché già ai tempi di Bonn Nietzsche aveva avuto modo di confrontarsi con la Critica alla filosofia kantiana posta in appendice al Mondo come volontà e rappresentazione (BROESE, 2004, 13-30), ma soprattutto perché, come si è detto, dallo scambio epistolare con Gersdorff si evince inequivocabilmente come la convinta adesione alla filosofia di Schopenhauer risalga all’estate del 1866 a seguito della lettura de La storia del materialismo di Lange, diversi mesi dopo la lettura de Il mondo come volontà e rappresentazione (NIETZSCHE, 1976, 462).[12]
D’altro canto nell’incipit dello Sguardo retrospettivo Nietzsche stesso sostiene come la stesura dello scritto sia motivata dal fermo proposito di conoscere se stesso; il racconto dell’adesione alla filosofia schopenhaueriana come di una improvvisa conversione religiosa non può essere ridotto alla ripresa di un cliché tra i seguaci del Saggio di Francoforte – non fosse altro per l’insofferenza di Nietzsche contro qualsivoglia banalizzante cliché. Che proprio nei Beiträge zur Charakterologie di Bahnsen si possa rintracciare la chiave interpretativa del racconto romanzato, lo suggerisce il passo in cui Nietzsche descrive il suo stato d’animo precedente la scoperta del capolavoro di Schopenhauer; egli riconosce infatti nel suo stato di prostrazione emotiva quella tendenza, distintiva dei giovani inclini alla «δυσκολία», di generalizzare turbamenti e irritazioni di natura personale (Nietzsche, 2001, 274).
Il termine δυσκολία è senz’altro tratto dai Beiträge zur Charakterologie. In esplicito distacco da Schopenhauer, Bahnsen aveva distinto la dottrina dei temperamenti dalla posodonica (dai termini greci ποσός = “di una certa misura”, e ὀδὔνη = “dolore”), cioè la dottrina dei gradi di capacità di provare piacere e dolore, articolata secondo l’antitesi di εὐκολία, la buona disposizione di carattere, e δυσκολία, la tendenza al cattivo umore[13]. In Bahnsen εὐκολία e δυσκολία non indicano il temperamento, ma più nello specifico lo stato d’animo fondamentale di un individuo.
Bahnsen puntualizza come tale differenza innata non possa decidere a priori della moralità di un individuo: il δὔσκολος è infatti sensibile al proprio dolore quanto al dolore altrui, mentre la serenità di un ἔυκολος è spesso goduta a prezzo della sofferenza di altri individui (BAHNSEN, 1867, 50). Tuttavia, egli ritiene opportuno collocare l’εὐκολία nella «zona intermedia della vita morale», in cui sussisterebbe una mescolanza di egoismo e filantropia; peculiari del δὔσκολος sono invece dal punto di vista di Bahnsen «i due estremi della vita morale», quali la bontà pronta al sacrificio e l’estrema crudeltà, due opposti che così «emergono da una sola ed identica base» (BAHNSEN, 1867, 103).[14] Un ἔυκολος è incapace tanto di azioni malvage quanto di eroico spirito di sacrificio; ma vera serietà e grandezza di carattere sono riconosciute da Bahnsen in definitiva solo al δὔσκολος: se di indole nobile, questi cercherà di alleviare il dolore altrui; in caso contrario, non pago di esperire il dolore dell’esistenza solo su di sé, proverà a trascinare anche il prossimo nello stesso stato d’animo (BAHNSEN, 1867, 104). Non sorprende allora come Nietzsche tenda a riconoscere la δυσκολία quale suo stato d’animo fondamentale, come chiaramente emerge dalla descrizione nello Sguardo retrospettivo dello stato di profonda prostrazione emotiva precedente la scoperta del capolavoro di Schopenhauer.
Nello scritto autobiografico il racconto della conversione alla filosofia di Schopenhauer è subordinato alla dichiarata intenzione di Nietzsche di conoscere se stesso: in virtù delle variazioni sul tema della dottrina del carattere di Schopenhauer delineate da Bahnsen nei Beiträge zur Charakterologie, dalla stessa sensibilità nei riguardi della Weltanschauung schopenhaueriana Nietzsche ritiene così di poter conoscere per induzione l’autentica natura del suo carattere.
Se, come sostiene Bahnsen, i motivi cui un individuo reagisce, comprese le rappresentazioni intellettuali, costituiscono i segni peculiari del suo carattere – per cui, ad esempio, l’«argomento pigro» del fatalismo etico agisce come motivo deterrente nei riguardi dell’azione solo sulle nature già predisposte a un atteggiamento passivo e indolente nei riguardi degli eventi della vita (BAHNSEN, 1867, 239) – nell’ottica di Nietzsche la stessa adesione alla filosofia schopenhaueriana vale come un motivo in grado di sortire effetto solo sui caratteri, per loro natura e peculiare bisogno etico, già predisposti a far propria la visione del mondo schopenhaueriana quale Begriffsdichtung. Come sostiene Bahnsen, «chi è in grado […] di entusiasmarsi per un ideale deve anche esserne fino ad una certa misura all’altezza» (BAHNSEN, 1867, 305), perché ognuno è toccato solo da ciò per cui ha una certa ricettività; modelli, libri o discorsi edificanti non introducono niente di estraneo nell’animo di un individuo, ma si limitano a richiamare alla sua coscienza ciò che è latente, fissano ciò che non è stabile; per converso, quanto è eterogeneo a un animo non è in grado di sortire effetto (BAHNSEN, 1867, 306).
Solo tenendo presente il ruolo che per Nietzsche i Beiträge zur Charakterologie di Bahnsen hanno avuto quale non secondario filtro interpretativo delle tesi sul carattere di Schopenhauer è possibile ricavare il senso, non esplicitato, della terza della Considerazioni inattuali. È noto come in Schopenhauer come educatore non siano discussi i temi della filosofia di Schopenhauer: protagonista di Schopenhauer come educatore è infatti, in definitiva, Nietzsche stesso. Non è allo scopo di rinnegare o sminuire la portata della sua giovanile entusiastica adesione alla filosofia schopenhaueriana che in Ecce homo Nietzsche sostiene che nella terza delle Considerazioni inattuali vi sarebbe narrata la sua «storia più intima», il suo «divenire» (NIETZSCHE, 1970, 329); il sotteso filo rosso di Schopenhauer come educatore è infatti da rintracciare nella sua scelta di Schopenhauer come proprio educatore – scelta che, quale testimonianza della più autentica natura del proprio carattere, rappresenta nell’ottica del Nietzsche giovane quanto maturo una via sicura per progredire nella conoscenza di sé.
la giovane anima guardi indietro nella sua vita domandandosi: che cosa hai tu finora amato veramente, che cosa ha attratto la tua anima, che cosa l’ha dominata e insieme resa felice? Poniti davanti la serie di questi oggetti venerati e forse essi ti indicheranno […] una legge, la legge fondamentale del tuo autentico te stesso. […]. I tuoi veri educatori e plasmatori ti rivelano quale è il vero senso originario il materiale di base del tuo essere, qualcosa di assolutamente non educabile e non plasmabile, ma comunque difficilmente accessibile, legato, paralizzato: i tuoi educatori non possono essere niente altro che i tuoi liberatori (NIETZSCHE, 1972, 362-363).
5 Dal pathos philosophicus come suprema affermazione della vita nei Beiträge zur Charakterologie all’interpretazione in chiave affermativa del pessimismo di Schopenhauer nel giovane Nietzsche.
Negli appunti autobiografici e nelle lettere del periodo di Lipsia Nietzsche intende come chiaro segno del proprio carattere il fatto che la filosofia schopenhaueriana, per quanto concerne il criterio di orientamento morale, avesse in lui preso il posto precedentemente occupato dalla fede religiosa; nell’epistolario con Gersdorff, in particolare, viene più volte sottolineata la radicale inconciliabilità tra cristianesimo e adesione alla filosofia di Schopenhauer. Anche in questa presa di posizione si cela qualcosa di più che la mera ripresa di un ormai consolidato cliché degli allievi della Schopenhauer-Schule. L’affinità con lo spirito di Schopenhauer è infatti nell’ottica di Nietzsche segno di un carattere non disposto ad accontentarsi della verità rivelata per soddisfare il proprio bisogno metafisico; a tale carattere sarebbe per converso connaturato un insopprimibile impulso per la ricerca della verità, il più autentico pathos philosophicus in virtù del quale è possibile l’accettazione della vita in tutti i suoi più dolorosi aspetti.
Nei Beiträge zur Charakterologie Bahnsen ritiene la conoscenza «lo scopo ultimo della volontà» (se infatti il Dasein è lo scopo dell’aspirare nella volontà come cosa in sé, allora, poiché il Dasein è solo per un soggetto, scopo del volere è rendere il sé stesso soggetto; se il Dasein è esistere come soggetto, o “farsi soggetto” da parte della volontà, volere l’esistenza equivale a voler essere soggetto) (BAHNSEN, 1867, 334), ragion per cui il πάθος φιλόσοφον rappresenta la «suprema affermazione della vita» (BAHNSEN, 1867, 335). La coscienza, ribadisce Bahnsen, è il fine ultimo della volontà, e solo la comprensione della mancanza di valore del mondo può condurre alla negazione del mondo stesso: la negazione deriva dal suo punto di vista dalla stessa affermazione della vita, e cioè dalla conoscenza (BAHNSEN, 1867, 339). Per mezzo della conoscenza ciò che la volontà apprende «non è altro che la sua stessa vana attività», e che anche il suo scopo ultimo, il conoscere, come tutto il suo essere e agire, sono vani.
Già nei Beiträge zur Charakterologie Bahnsen (ancora convinto di una qualche possibilità di redenzione, come invece negherà nelle opere successive) esterna le sue perplessità circa il processo di negazione della volontà per mezzo dell’ascesi quale è delineato ne Il mondo come volontà e rappresentazione, ritenendo l’ascetismo del tutto incompatibile con diversi assunti del sistema di Schopenhauer. Bahnsen rigetta gli esiti quietistici del pessimismo schopenhaueriano e, soprattutto nel secondo volume dei Beiträge, sottolinea in più occasioni come il pessimismo non implichi un atteggiamento quietistico nei riguardi della vita. Egli loda al contrario la forza di carattere del pessimista rispetto agli uomini comuni, nella misura in cui, a fronte della consapevolezza che la maggior parte delle sue speranze andranno deluse e i suoi ideali frustrati, accetta di fronteggiare la vita anche nei suoi più dolorosi aspetti e pagare il prezzo dei suoi vani sforzi[15].
L’impressione evidentemente positiva suscitata da tale interpretazione in chiave affermativa del pessimismo di Schopenhauer sul giovane Nietzsche traspare da una traccia di lettura del secondo volume dei Beiträge zur Charakterologie[16]. Con una decisa piega nell’angolo del foglio egli segna le pagine del volume in cui Bahnsen paragona si serve della descrizione di Humboldt delle terribili impressioni provate durante il primo terremoto vissuto in prima persona per tratteggiare lo stato d’animo di quel credente che per la prima volta si trova di fronte al «primo dubbio profondo e innegabile» sulla fondatezza della propria fede; questi sente infatti «come se il mondo dovesse finire se non c’è un Dio che lo porta nelle sue mani».
Che il mondo possa poggiare su stesso, stare su sé stesso, sembra inconcepibile, perché l’uomo è abituato a riferire tutto, anche l’esistenza stessa, alla ragione e alla causa. E come in un terremoto si rivelano a noi i danni e le crepe del terreno su cui abbiamo a lungo messo i piedi, così anche colui, cui nessun pregiudizio teistico tiene più gli occhi, percepisce che questo mondo non è il migliore del mondi possibili, che è piuttosto un mondo abbandonato senza garanzia alla cieca causalità delle potenze elementari (BAHNSEN, 1867, 195-196).
Lo stato d’animo del pessimista privo di fede, scrive Bahnsen, è invece analogo a quello di chi ha a lungo abitato sul suolo vulcanico, ormai abituato a tale sentimento di perenne insicurezza; egli ha dimenticato ogni alta pretesa e speranza di felicità, ed è capace di mangiare “di gusto il proprio pane” pur sapendo di non poter disporre di altre provviste; il vero pessimista è pertanto in grado di affrontare l’esistenza nonostante se non in virtù dell’avvenire (BAHNSEN, 1867, 196).
La similitudine con l’uomo abituato ad abitare sul suolo vulcanico di cui nei Beiträge zur Charakterologie Bahnsen si serve per descrivere l’atteggiamento del pessimista verso l’incertezza costitutiva dell’esistenza sarà ripresa da Nietzsche con maggior vigore espressivo ne La gaia scienza, laddove egli indica come il «segreto per raccogliere dall’esistenza la fecondità più grande e il diletto più grande» nel «vivere pericolosamente», invitando gli uomini della conoscenza a costruire le proprie case «alle pendici del Vesuvio» (NIETZSCHE, 1965, 164).
Anche nei frammenti postumi risalenti al periodo di Lipsia è possibile trovare traccia della proficua lettura da parte del giovane Nietzsche dei Beiträge zur Charakterologie; in particolare, l’analisi del frammento 58[43], intitolato Osservazione di sé, conferma come proprio nell’opera di Bahnsen sia da rintracciare la chiave di lettura dello scritto Sguardo retrospettivo ai miei due anni a Lipsia.
Scrive Nietzsche nel frammento che l’osservazione di sé «inganna», ragion per cui è necessario conoscere se stessi «attraverso l’azione, non attraverso la contemplazione» (NIETZSCHE, 2001, 260). Si tratta della ripresa della tesi di Bahnsen, ma già di Schopenhauer, secondo la quale solo la decisione e l’azione, non il mero desiderio, costituiscono evidenti segni del proprio carattere, ragion per cui solo in virtù esperienza fatta è possibile lo sviluppo del carattere acquisito, la «conoscenza più perfetta possibile della propria individualità» (W I, § 55, 597). Detto altrimenti, solo nella vita concreta e nella pratica del mondo è possibile diventare chi si è. Il verso di Pindaro «diventa chi sei», scelto da Nietzsche come motto per il saggio su Diogene Laerzio, compare per la prima volta nel corpus nietzschiano in una lettera a Erwin Rohde del novembre 1867 – contemporanea, pertanto alla lettura dei Beiträge zur Charakterologie – in riferimento non certo casuale alla comune professione di fede schopenhaueriana (NIETZSCHE, 1976, 536). Il nesso individuato da Nietzsche tra il verso di Pindaro e Schopenhauer emerge chiaramente se si prende in considerazione la sua formulazione integrale, «γένοἰ, οἶος ἐσσὶ μαθών», traducibile con «diventa chi sei avendolo appreso»; il verso di Pindaro deve essere apparso al giovane filologo come la trasposizione in versi delle tesi schopenhaueriane sul carattere acquisito su cui si incentrano i Beiträge zur Charakterologie di Bahnsen. Che Nietzsche abbia poi scelto il verso di Pindaro come sottotitolo di Ecce homo (1888) rappresenta un significativo elemento di continuità nel suo itinerario filosofico per quel che concerne il fondamentale imprinting schopenhaueriano, al di là dell’ abusata categoria dell’antipode per descrivere la sua successiva presa di posizione nei riguardi di Schopenhauer.
Nel frammento 58 [43] Nietzsche prosegue poi rilevando come l’osservazione di sé «disgrega e frantuma», ragion per cui «l’istinto è la cosa migliore» (NIETZSCHE, 2001, 260-261). Anche qui è evidente e attestato il rimando ai Beiträge zur Charakterologie di Bahnsen, con particolare riferimento al capitolo Die energiehemmende Wirkung der reflektierenden Selbstbeobachtung » (NIETZSCHE, 2001, 649).
Secondo Bahnsen l’eccesso di introspezione e autoanalisi da parte dell’intelletto sarebbe causa di regressione morale perché, a prescindere dal contenuto della riflessione, si genera una sorta di paralisi nell’individuo per quel che concerne l’agire: «la coscienza ingenua» pertanto «è meno esposta all’inciampo di quella riflessiva», mentre «ogni agire cosciente è più insicuro di quello istintivo» (BAHNSEN, 1867, 298).
Spunto di tale riflessioni è il saggio Sulla visione degli spiriti dei Parerga in cui Schopenhauer descrive l’attività del sonnambulo: che questi nel sonno si muova con maggiore agilità rispetto alla veglia dipende dallo stato di attivazione parziale del suo intelletto, limita alla necessità di guidare il cammino. Eliminata la riflessione, osserva Schopenhauer, viene meno anche l’inibizione del movimento; nella veglia, invece, il grande cervello, organo dei motivi, invia al piccolo cervello, regolatore del movimento, istruzioni che cambiano continuamente; con il sopraggiungere di un nuovo motivo, esso disdice quanto prima disposto, causando così instabilità e insicurezza (P I, 332-333).
Generalizzando tali considerazioni, Bahnsen aggiunge che ancor più rapidamente si succedono nel flusso delle rappresentazioni i concetti astratti, motivo per cui l’agire rischia di diventare ancor più incerto se guidato da regole, massime, e divieti, dove «invece del sentimento […] è nominata regolatrice la ragione» (BAHNSEN, 1867, 299).[17] In un altro luogo dell’opera egli sostiene come l’adempimento inconscio [unbewußten] del dovere del momento possa distogliere temporaneamente lo sguardo dell’individuo dalla condanna del nucleo del proprio essere, permettendogli così di agire conformemente a quanto richiesto dalla situazione; colui che per converso sprofonda nella contemplazione quietistica, dispera dell’indole del suo carattere intellegibile, perdendo così l’occasione di agire moralmente, quando pure le condizioni caratteriali a questo fine sarebbero in lui presenti (BAHNSEN, 1867, 218).
Sulla scia di queste riflessioni Nietzsche nel frammento 58[43] definisce ancora «l’osservazione di sé» come una «malattia dello sviluppo», ribadendo che «le nostre azioni devono essere compiute inconsciamente» (Nietzsche, 2001, 261). Su queste idee portanti egli redigerà i primi paragrafi dello Sguardo retrospettivo, nel quale le più importanti decisioni del suo percorso formativo sono ricondotte non alla riflessione ponderata, ma alla peculiare saggezza della propria natura istintiva, agli impulsi della sua specifica natura – come, ad esempio, l’impulso che lo avrebbe spinto all’acquisto non ponderato di una copia de Il mondo come volontà e rappresentazione (Nietzsche, 2001, 274).[18]
Che l’azione compiuta inconsciamente rappresenti una più genuina espressione del carattere perché sottratta all’effetto inibitorio della riflessione è un’idea destinata anch’essa a divenire un motivo ricorrente delle riflessioni nietzschiane (Nietzsche, 2001, 572),[19] fino a far sentire i suoi riverberi in Ecce homo («per essere completamente me stesso devo essere impreparato di fronte a ciò che mi succede») (Nietzsche, 1970, 277); in verità in quest’opera Nietzsche sembra peccare proprio di eccesso di autoanalisi, preoccupato di descriversi ai posteri in prima persona non essere scambiato «per altro» (Nietzsche, 1970, 308). D’altro canto il frammento Osservazione di sé evidenzia come già nei suoi anni giovanili Nietzsche fosse preoccupato di definire i confini di indipendenza della propria sfera intellettuale; egli definisce infatti l’osservazione di sé come «un’arma contro le influenze estranee» (NIETZSCHE, 2001, 261). Dallo Sguardo retrospettivo e dai frammenti coevi si evince come preoccupazione del giovane Nietzsche nei giorni in cui nacque come filologo fosse il condizionamento intellettuale esercitato dal suo maestro Ritschl.[20]
7 La figura del filologo nei Beiträge zur Charakterologie di Bahnsen e le critiche del giovane Nietzsche dell’eccesso di specialismo negli studi filologici.
I frammenti risalenti al 1867 e il 1868, in cui Nietzsche riflette sul metodo e gli scopi delle filologia, attestano come egli avesse fatto proprie le riflessioni di Bahnsen concernenti la stretta relazione che sussisterebbe tra inclinazioni intellettuali e peculiarità del carattere individuale.
Nel frammento 52[30], ad esempio, Nietzsche osserva come il bisogno di dedicarsi a una determinata scienza sia prima di tutto un bisogno soggettivo che risponde alla particolarità della natura dell’individuo, la quale solo così può trovare adeguata soddisfazione: «il primo dovere non è quello di giovare alla scienza e il secondo di giovare a se stessi, bensì esattamente il contrario» (Nietzsche, 2001, 186). D’altro canto già in questi anni Nietzsche avverte come problematica la decisione di dedicarsi alla filologia, perché in contrasto rispetto alla propria natura incline all’arte e alla filosofia.
L’inclinazione per la filologia è considerata da Bahnsen in termini assai negativi nei Beiträge zur Charakterologie. La «vera virtus philologica» richiederebbe dal suo punto di vista un temperamento anemico, «un amante delle dispute più serie sulle cose minime con la corrispondente acribia» (BAHNSEN, 1867, 92). Per quanto Bahnsen riconosca un certo impulso alla verità anche in chi è dedito, soprattutto in campo filologico, alla mera raccolta diligente – quale servizio di fatica per gli «spiriti reali» che da tale selezione del materiale possono continuare ad edificare «sul palazzo della scienza originaria e collettiva» (BAHNSEN, 1867, 326) – egli rintraccia nell’erudizione dei filologi una componente di ostinazione [Eigensinn] che finisce con il danneggiare la loro stessa scienza. Bahnsen biasima l’inutile dispendio di forza di quei «lavoratori a giornata» dei filologi eruditi, la loro caparbia ricerca di indizi per convalidare una qualche ipotesi micrologica di scarso valore ai fini della conoscenza dell’antichità: «come l’avaro nella sua monomania muore di fame sotto i tesori, così l’umanità soccombe nel petto del mero bottegaio che seleziona notizie», che neanche è in grado di sentire «il più lieve respiro del potente spirito» dell’antichità intorno a lui (BAHNSEN, 1867, 401). Ed è questa, osserva Bahnsen, una categoria di filologi che non si estinguerà almeno finché «i Lachmann» e «i Ritschl» continueranno a trovare nei giovani «ammiratori giurati» (BAHNSEN, 1867, 401). Non è difficile immaginare l’imbarazzo del giovane Nietzsche, allievo prediletto di Ritschl, alla lettura di questo passo in un’opera di dichiarato orientamento schopenhaueriano.
Bahnsen osserva ancora come la ricerca filologica rientri tra quelle scienze che più possono annoverare tra i loro adepti casi di cocciutaggine [Querköpfigkeit]. L’eccesso di erudizione degli studi filologici costituisce un inutile dispendio di acume finalizzato a difendere un’ipotesi interpretativa di cui un certo studioso, per una qualche ragione, si è invaghito; si tratta di un raptus logico, non diretto verso un fine, che nulla ha a che fare con la ricerca della verità. In questa categoria di eruditi rientrano secondo Bahnsen i filologi decostruttivi, «che per amore di un’idea di F. A. Wolf e Lachmann, non ne hanno mai abbastanza, di fare a pezzi in meri brandelli la poesia omerica e la canzone dei Nibelunghi» (BAHNSEN, 1867, 403).
I frammenti e le lettere del periodo di Lipsia mostrano come Nietzsche avesse accolto le critiche mosse da Bahnsen alla figura del filologo di professione. Nel frammento 58[29], intitolato Filologia ed etica, egli osserva infatti come lo studio della filologia sia il più lontano dall’etica rispetto alla giurisprudenza, alla teologia, alla medicina e alle scienze naturali; senza argomentare oltre, egli rimanda alla pagina 347 del capitolo del primo volume dei Beiträge zur Charakterologie intitolato Nachtheile der einseitig intellectuellen Ausbildung für den Charakter als zu erwerbenden (Nietzsche, 2001, 248).
Qui Bahnsen sottolinea come una formazione intellettuale unilaterale rappresenti un pericolo per la propria autoeducazione morale, perché lascerebbe il carattere «non formato». La mera diligenza nello studio, quale «virtù dello studente in quanto studente», induce a rimanere scolari per tutta la vita, ed è questo un rischio cui sarebbero particolarmente esposti proprio coloro che si dedicano alla filologia (BAHNSEN, 1867, 347). Nietzsche intende così alludere nel frammento citato al fatto che l’assenza di una piega etica nello studio della filologia sia da ricondursi alla formazione unilaterale ed eccessivamente specialistica da questa richiesta.
Ulteriori rimandi alle osservazioni di Bahnsen sullo studio della filologia emergono nelle lettere indirizzate da Nietzsche a Deussen tra il 1867 e il 1868. Nella lettera del 2 giugno 1868, egli biasima i giovani filologi tormentati dal desiderio di sfoggiare quanto prima un lavoro scientifico, che
si buttano come dissennati su un autore perché fornisca loro l’occasione e la sostanza per simili imprese. Anche in questi poveri ambiziosi, stat pro ratione voluntas: non li pungola tanto un impulso creativo, quanto la volontà di essere creativi. Guai poi a quella ratio che attende di essere rimorchiata dalla volontà: tra parentesi, proprio queste nature sono le più arroganti. In generale vedrai che nei filologi si annida una certa stortura morale […]. Persino la capacità […] di entusiasmarsi, è rarissima tra i filologi attuali: suoi squallidi surrogati sono la presunzione e la vanità (NIETZSCHE, 1976, 590).
Il verso di Giovenale stat pro ratione voluntas è riportato da Bahnsen in un passo dei Beiträge zur Charakterologie per sintetizzare la tesi di Schopenhauer per cui il fenomeno dell’ostinazione si spiega con il fatto che la volontà ha preso il posto della conoscenza (BAHNSEN, 1867, 405). Ciò suggerisce come proprio le considerazioni di Bahnsen abbiano ispirato Nietzsche nella descrizione «caratterologica» del filologo, in specie per quel che concerne la tendenza a trascurare il proprio sviluppo interiore conseguente alla sua formazione intellettuale unilaterale.
Lungi dall’identificarsi con il filologo di professione quale descritto da Bahnsen, Nietzsche si riconosce come una natura artistica e filosofica prestata alla filologia. E, ancora conformemente alle tesi di Bahnsen, nei frammenti autobiografici di questo periodo egli interpreta la propria dedizione alla filologia alla stregua di una consapevole rinuncia, volta a contenere la dispersione delle sue diverse capacità per effetto delle sue inclinazioni artistiche.
Da una certa vaga dispersione delle numerose direzioni delle mie capacità mi protesse una determinata serietà filosofica, mai paga se non in presenza della nuda verità, e l’animo impavido, anzi addirittura propenso alle conclusioni più dure e spiacevoli. La convinzione di non poter arrivare a toccare il fondo delle cose nell’universale mi spinse tra le braccia del rigore scientifico. E poi l’anelito a cercar scampo dai repentini mutamenti sentimentali delle inclinazioni artistiche nel porto dell’oggettività (NIETZSCHE, 2001, 488).[21]
Nei Beiträge zur Charakterologie Bahnsen indica come vera «benedizione del lavoro regolare» l’esercizio e l’abitudine che questo implica, nella misura in cui è preclusa ogni possibilità di miglioramento di sé a chi con sappia procedere in modo costante in una direzione definita. Nel lavoro metodico si apprende ad astenersi dagli appetiti immediati e a sottrarsi ai pericoli della vita quotidiana che minano costantemente la propria individualità, così da evitare le situazioni che potrebbero far cedere al desiderio e deviare dal proprio percorso (BAHNSEN, 1867, 209). In questi termini Nietzsche interpreta la scelta di dedicarsi alla filologia, e questo in virtù della propria «serietà filosofica» consapevole di «non poter toccare il fondo nelle cose dell’universale» – detto altrimenti, consapevole dell’impossibilità di fondare una metafisica come scienza e ormai cosciente della natura irrimediabilmente soggettiva di ogni costruzione concettuale in termini di Begriffsdichtung.
Per non smentire la «serietà filosofica» della sua natura, il giovane Nietzsche si propone di conferire ai suoi lavori filologici una prospettiva implicitamente schopenhaueriana. Negli appunti del 1867/1868, generalizzando l’idea per cui l’eccesso di autoriflessione compromette la comprensione della natura del proprio carattere, egli suggerisce come l’eccesso di riflessione storica negli studi filologici impedisca di cogliere l’autentico spirito dell’antichità. Condividendo il giudizio negativo di Schopenhauer sulla storia, Nietzsche si propone di individuare un nuovo criterio di valutazione degli scritti dell’antichità classica per buttar via la «zavorra inutile» (Nietzsche, 2001, 208) («la valutazione estetica prolunga la vita solo di pochi scritti, la valutazione storico-letteraria quella di tutti») (Nietzsche, 2001, 193), e rintraccia la fecondità della filologia ovunque «i suoi studi raggiungano qualcosa di universalmente umano [Allgemein Menschliches]» (Nietzsche, 2001, 262-263), e cioè l’essenza dell’umanità quale si manifesta in ogni tempo e in ogni luogo (Apollonio, 2020, 265- 278). L’espressione «universalmente umano» non è di conio nietzschiano e si trova proprio nei Beiträge zur Charakterologie di Bahnsen, laddove egli considera la «sofferenza per il dolore altrui» come un qualcosa di «indipendente da ogni barriera storica, peculiarità religiosa e nazionale, quindi da ogni tempo e da ogni razza e popolo» (BAHNSEN, 1867, 291).
Gli sforzi compiuti da Nietzsche al fine di coniugare filologia e filosofia troveranno il loro compimento ne La nascita della tragedia (1872), opera in cui il pessimismo di matrice schopenhaueriana è declinato in senso affermativo e tragico; le affinità con l’interpretazione del pessimismo proposta nei Beiträge zur Charakterologie saltarono agli occhi dello stesso Bahnsen qualche anno dopo la pubblicazione dell’opera, come attesta la lettera indirizzata a Nietzsche il 22 febbraio 1878, in occasione dell’anniversario della nascita di Schopenhauer:
anche Lei sottolinea la contraddizione originaria del mondo, che costituisce il tema della mia Realdialettica; anche Lei è un aperto dispregiatore della logica materialistica ed un caldo sostenitore della conoscenza intuitiva e fin nei particolari minuti l’accordo delle nostre opinioni è sorprendente. Così ho letto con la più grande soddisfazione la sua illustrazione caratterologica dell’uomo Schopenhauer – ritratti del genere sono anzi la mia specialità ed io sono in grado per giunta di rendere autentico ogni singolo tratto […]. È completamente di mio gradimento la preparazione di ciò che è sano, come variazione di uno dei temi preferiti della mia caratterologia (FAZIO, 2009, 343-344).
La lettera di Bahnsen, rimasta con ogni probabilità senza risposta, giunge però intempestiva nelle mani di Nietzsche, ormai approdato alla decisiva svolta di Umano, troppo umano (1878).
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Authorship contributions
1 – Simona Apollonio:
Liceo Statale “A. Rosmini”, Grosseto - PHD
simonaapollonio@gmail.com • simona.apollonio@rosminigr.edu.it
Contribuition: Writing – original draft
How to quote this article
APOLLONIO¸ Simona. Dottrina del carattere e conoscenza di sé. Il giovane Nietzsche interprete di Schopenhauer a partire dai Beiträge zur Charakterologie di J. Bahnsen. Voluntas Revista Internacional de Filosofia, Santa Maria, v. 12, e09, 2021. DOI 10.5902/2179378666978. Available at: https://doi.org/10.5902/2179378666978. Accessed on: day month abbreviated. year.
[1] «La ricezione nietzschiana dei Beiträge è ancora tutta da studiare; la critica di Bahnsen alla radicale contrapposizione schopenhaueriana tra volontà e intelletto presenta punti di contatto con la riflessione del giovane Nietzsche».
[2] Per approfondimenti sulla categoria storiografica della Schopenhauer-Schule, cfr. Ciracì; Fazio; Koßler, 2009; Fazio, 2009. Si veda anche il fondamentale studio di Invernizzi, 1994.
[3] Nel corpus nietzschiano il primo riferimento ai Beiträge zur Charakterologie si trova in una lettera a Gersdorff dell’autunno 1867: «Poiché l’autore parte da premesse schopenhaueriane ed è mosso da un grande amore per il maestro, e poiché a parte ciò, quest’opera in due volumi contiene realmente osservazioni e pensieri ottimi, la raccomando sia a te, sia a tutti gli iniziati a questa sapienza, tanto evidente eppure nascosta. La cosa che mi piace di meno è la forma; l’autore affretta troppo i suoi pensieri e guasta in tal modo la linea della bellezza». Nietzsche, 1976, vol. I, lettera 554, a Carl von Gersdorff, Naumburg 24 novembre/1 dicembre 1867, 544. Una seconda menzione del nome di Bahnsen nell’epistolario nietzschiano si trova in una lettera a Gersdorff del febbraio 1868, in cui Nietzsche comunica l’intenzione di fondare una rivista di orientamento schopenhaueriano: «dovremmo cercare di riunire i nostri amici filosofi: nella lista c’è anche Bahnsen, autore degli Studi sul carattere». Nietzsche, 1976, lettera 562, a Carl von Gersdorff, Naumburg, 16 febbraio 1868, 564. La ricevuta custodita presso la Biblioteca Nietzsche attesta come i Beiträge zur Charakterologie siano stati rilegati a Naumburg il 9 aprile del 1868. È probabile che Nietzsche abbia consultato l’opera anche successivamente, ma nel corpus nietzschiano non sono rintracciabili indizi decisivi in tal senso. Cfr. Campioni; D’Iorio; Fornari; Fronterotta; Orsucci, 2002, 131.
[4] Secondo Bahnsen il temperamento è dato dalle modalità secondo cui la volontà si rapporta ai motivi in base al grado di debole o forte spontaneità [Spontaneität], rapida o lenta ricettività [Receptivität], profonda o superficiale impressionabilità [Impressionabilität], e durevole o fugace reagibilità [Reagibilität]. In base al grado di spontaneità, reattività, impressionabilità e reagibilità, Bahnsen declina i quattro temperamenti classici in sedici varianti che descrivono le combinazioni possibili tra i diversi elementi, e che «al chimico potrebbero ricordare certe formule della sua scienza». Il temperamento costituisce così «l’esponente della relazione puramente formale tra volontà e motivi» ed esprime «la legge del meccanismo delle determinazioni volitive», quindi qualcosa di proporzionale/quantitativo. Cfr. Bahnsen, 1867, 24-25.
[5] La più esaustiva presentazione del pensiero di Bahnsen è lo studio di Heydorn, 1952. Tra i contributi più significativi sui Beiträge zur Charakterologie, si segnalano: Lehmann, 1930, 1-11; Lehmann, 1932, 74-92; Leiste, 1928; Christo, 1910.
[6] Per il vecchio problema: «Che cos'è tedesco?», 230: «deve forse ascriversi a onore dei Tedeschi la vecchia trottola Bahnsen, che per tutta la vita si è deliziato nel roteare intorno alla sua realistico-dialettica miseria e alla sua «sfortuna personale – sarebbe caso mai questo quel che è precisamente tedesco? (Raccomando inoltre i suoi scritti, di cui io stesso ho fatto uso, come nutrimento contro il pessimismo, specialmente a cagione delle sue elegantiae psychologicae, con le quali, mi pare, si può, anche nel corpo e nell’anima meglio sprangati, trovare il punto debole)».
[7] Per un approfondimento, cfr. Apollonio, 2016.
[8] Sull’importanza per giovane Nietzsche del confronto con l’opera di Kant, Brusotti; Siemens, 2017; Giordanetti, 2011; Broese, 2005; Swift, 2005; Fazio, 1991.
[9] «Di conseguenza, pensa Lange, si lascino liberi i filosofi, premesso che questi d’ora in avanti ci elevino. L’arte è libera, anche nella sfera dei concetti. […] Come vedi, persino attenendoci a questo rigidissimo principio critico ci rimane sempre il nostro Schopenhauer, anzi egli diventa per noi qualcosa di più. Se la filosofia è arte, anche Haym deve nascondersi davanti a Schopenhauer; se la filosofia ha il compito di elevare, allora non conosco nemmeno un filosofo che elevi più del nostro Schopenhauer».
[10] Lange, Geschichte des Materialismus und Kritik seiner Bedeutung in den Gegenwart, Iserlhon 1866, Zweites Buch, Erster Abschnitt, «Die neuere Philosophie», Kap.1, “Kant und der Materialismus”, 268.
[11] Secondo Bahnsen, l’insoddisfazione nei riguardi di sé costituisce «un non volere della propria volontà», quindi «una “negazione” della volontà per mezzo della volontà, che diventa una “contraddizione reale” fino a quando entrambi i modi del volere persistono l’uno accanto all’altro». Bahnsen intende pertanto il rimorso di coscienza come una «negazione teoretica della volontà», il «conflitto della volontà che si riflette nell’intelletto». (Bahnsen, 1867, 229).
[12] «[…] merita di essere ricordato anche il nostro Schopenhauer, al quale sono legato ancora da tutta la mia simpatia. Ciò che egli rappresenta per noi, l’ho capito con molta chiarezza soltanto di recente, grazie a un altro scritto, eccellente nel suo genere e molto istruttivo: Storia del materialismo e critica del suo significato per il presente, di A. Lange, 1866».
[13] Nel §57 de Il mondo come volontà e rappresentazione Schopenhauer sostiene che in ogni individuo la misura del dolore a lui essenziale è stabilita dalla sua natura, a prescindere dal tipo specifico di dolore: benessere e dolore non sono determinati da circostanze esterne, ma da quella individuale predisposizione che, nel corso della vita, può sperimentare diminuzione o crescita, ma rimane nel complesso identica, e questa «non sarebbe nient’altro che ciò che si chiama il proprio temperamento, o più esattamente, il grado in cui un uomo, come dice Platone nel primo Libro della Repubblica, è ἔυκολος o δὔσκολος, cioè di animo lieve o animo grave» (W I, §57, 617.) Nella prospettiva di Schopenhauer, pertanto, εὐκολία e δυσκολία corrispondono al temperamento.
[14] Come il fanatismo dei malvagi nel disporre il male da infliggere a innocenti sconosciuti lascia emergere il nesso tra crudeltà e voluttà, anche nella compassione è secondo Bahnsen riscontrabile un’analoga polarità che rende problematico, contrariamente a quanto sostenuto da Schopenhauer, assumerla quale fondamento della morale. Cfr. BAHNSEN, 1867, 105.
[15] La declinazione in senso tragico del pessimismo schopenhaueriano sarà tematizzata da Bahnsen in opere successive (in particolare in Das Tragische als Weltgesetz und der Humor als ästhetische Gestalt des Metaphysischen, 1877) ma nei Beiträge zur Charakterologie la sua presa di posizione è già evidente.
[16] Cfr. Nietzsches persönliche Bibliothek, hrsg. von G. Campioni, P. D’Iorio, M. C. Fornari, F. Fronterotta, A. Orsucci, De Gruyter, Berlin-New York 2002, 131.
[17] La saggezza pratica deriva secondo Bahnsen dalla vera razionalità [Vernüftigkeit], dall’equilibrio tra intuizione [Anschauung] e astrazione [Abstraction].
[18] Sguardo retrospettivo ai miei due anni a Lipsia: «Non so quale demone mi sussurrasse: “portati a casa questo libro”. La cosa comunque accadde contrariamente alla mia abitudine, che era di non essere mai precipitoso nell’acquisto dei libri». Per quel che concerne l’eccesso di riflessione su di sé come malattia dello sviluppo, Cfr. Id. 267: «il continuo meditare e ponderare turna di solito le ingenue espressioni del carattere, e facilmente si dimostra pregiudizievole al suo sviluppo».
[19] «[…] hai scritto una cosa che pare proprio dettata e uscita dal mio cuore: l’istinto è il meglio dell'intelletto».
[20] Tale preoccupazione emerge anche dall’epistolario. Ancor prima del suo trasferimento a Lipsia, scriveva Nietzsche a Mushacke: «io ci tengo molto ad uno sviluppo autonomo – e guarda con quanta facilità si può essere influenzati da uomini come Ritschl, e trascinati addirittura su binari lontani dalla propria natura». Nietzsche, 1976, lettera 478, a Hermann Mushacke, Naumburg, 30 agosto 1865, 379.
[21] «[…] quando mi volgo a considerare come sono passato dall’arte alla filosofia, dalla filosofia alla scienza, e in quest’ambito a interessi sempre più ristretti: la cosa ha quasi un’aria di consapevole rinuncia».