Riflessività e Ricerca Sociale: la produzione dialogica della realtà
Reflexivities and Social Research: the dialogic production of reality
Reflexividade e Pesquisa Social: a produção dialógica da realidade
Leandro
Rogério Pinheiro
Universidade Federal do Rio Grande do Sul, Porto Alegre, Rio Grande do Sul, Brasil.
leandropinheiro75@gmail.com – https://orcid.org/0000-0001-5041-4939
Enzo Colombo
Universidade de Milão, Milão, Itália.
enzo.colombo@unimi.it – https://orcid.org/0000-0001-7231-5819
Recebido em 06 de agosto de 2021
Aprovado em 10 de agosto de 2021
Publicado em 04 de setembro de 2021
RIASSUNTO
Durante l’intervista abbiamo provato a problematizzare domande che riguardano la ricerca sociale su le infanzie e gioventù, evidenziando i processi riflessivi che costituiscono le azioni sociali contemporanee. In questo modo, invitiamo Enzo Colombo ad un’interlocuzione sulle diverse prospettive teorico metodologiche che portano alla luce il tema della ‘riflessività’, considerandola come categoria di interpretazione visto i processi di socializzazione e di individualizzazione ai giorni d’oggi. I contributi che risultano dalle risposte di Enzo Colombo ci portano dalle critiche epistemologiche e delineano didatticamente filoni interpretativi dell'azione riflessiva. Cioè: a) riflessioni dell’attore sociale su sé stesso e il contesto, in interazione con codici e attività; b) processo ricorsivo di incorporazione dei risultati dell'azione e della conoscenza; e c) pratica relazionale di produzione di sensi e azioni nell’interazione. In questo modo, inoltra i suoi argomenti alla discussione sulle condizioni socio-politiche per la produzione di una ‘riflessività costruzionista’, imprigionata ai contesti e ai dialoghi tra soggetti, attenta alla participazione della ricerca nella costruzione della realtà sociale.
Palavras-chave: Riflessività; Ricerca sociale; Realtà sociale.
ABSTRACT
During the interview, we aim to problematize issues pertinent to social research with/about childhood and youths, highlighting the reflexive processes that constitute contemporary social actions. Thus, we invite Enzo Colombo for a conversation about the different theoretical-methodological perspectives that bring up the theme of “reflexivity”, considering it a category of interpretation in view of the current processes of socialization and individuation. The contributions raised by Enzo Colombo answers emerge from epistemological criticisms and didactically outline interpretative perspectives of the reflexive action, namely: a) the reflection of the social actor on him/herself and the context, interacting with codes and activities; b) the recursive process of incorporating results from action and knowledge; and c) the relational practice of producing senses and action in the interaction. Therefore, he continues his arguments to discuss the socio-political conditions to produce a ‘construcionist reflexivity’, held to the contexts and dialogues between the subjects, aware to the research participation in the construction of social reality.
Keywords: Reflexivities; Social research; Social reality.
RESUMO
Na entrevista, procuramos problematizar questões pertinentes à pesquisa social com/sobre as infâncias e juventudes, com destaque aos processos reflexivos que constituem as ações sociais contemporâneas. Dessa forma, convidamos Enzo Colombo para uma interlocução acerca de diferentes perspectivas teórico-metodológicas que trazem à tona o tema da ‘reflexividade’, considerando-a como categoria de interpretação em vista dos processos de socialização e individuação na atualidade. As contribuições versadas nas respostas de Enzo Colombo trazem-no desde críticas de ordem epistemológica e delineiam didaticamente vertentes interpretativas da ação reflexiva, a saber: a) reflexões do ator social sobre si mesmo e o contexto, em interação com códigos e atividades; b) processo recursivo de incorporação dos resultados da ação e do conhecimento; e c) prática relacional de produção de sentidos e ações na interação. Assim, encaminha seus argumentos à discussão sobre as condições sócio políticas para a produção de uma ‘reflexividade construcionista’, entrelaçada aos contextos e aos diálogos entre sujeitos, atenta à participação da pesquisa na construção da realidade social.
Palavras-chave: Reflexividades; Pesquisa social; Realidade social.
Introdução
Enzo Colombo è professore e ricercatore del Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università degli Studi di Milano. Ha iniziato il suo lavoro in sociologia alla fine degli anni 1980, nel contesto educativo del “Laboratorio sul Mutamento Sociale (LAMS)”, coordinato da Alberto Melucci. Come è stato affermato dallo stesso Colombo, quello sarebbe stato lo spazio di gestione di una prospettiva di “costruzionismo fattuale e radicale”, che intendeva vincolare da un lato gli interessi teorici sul rapporto ricorsivo tra struttura e agenzia, e dall’altro domande metodologiche ed epistemologiche che riguardano il lavoro del ricercatore, considerato come produttore della conoscenza sociale.
A partire da questo punto, l'intervistato ha costruito un percorso di ricerca attento ai temi delle gioventù, della differenza e del multiculturalismo contemporaneo, con enfasi sulle loro appropriazioni contestualizzate. E, in congruenza, vengono anche sottolineate le sue riflessioni sulla produzione sociale delle narrazioni di ricerca, a cui dá sfogo sulle righe che seguono, nelle sue discussioni su una riflessività costruzionista e dialogica.
La nostra intervista è stata fatta via email tra maggio e luglio del 2021, con lo scopo di stabilire un dialogo più ampio, insieme alla partecipazione del professore al seminario speciale Riflessività e azioni sociali: considerazioni alla ricerca sulla socializzazione e sull’individuazione, avventuto nell'ambito dell'accordo di cooperazione stipulato tra i Programmi di Post Laurea in Educazione dell’Universidade Federal do Rio Grande do Sul (UFRGS) e dell’Universidade Federal de Santa Maria (UFSM).
Leandro R. Pinheiro: Per dare inizio alla nostra interlocuzione, mi piacerebbe che lei ci parlasse sulla nozione di riflessività come categoria per la comprensione delle ‘azioni sociali’ contemporanee. In altre parole, mi piacerebbe che lei presentasse la nozione tale come la concepisce, sin dalle condizioni per la sua costituzione come fatto sociale oggigiorno e, se possibile, nella differenziazione di interpretazioni che tendono ad associarla alla riflessione, coscienza critica o correlati.
Enzo Colombo: Il concetto di riflessività è divenuto, in modo significativo a partire dagli anni ’80, uno degli strumenti teorici e metodologici centrali nella cassetta degli attrezzi delle scienze sociali. In termini generali, si potrebbe dire che essere riflessivi significa collocare il processo di produzione di una particolare attività nell’ambito di tale attività come suo elemento costitutivo (ASHMORE, 1989). In altri termini, riflessività intende segnalare l’idea che il modo in cui si fanno le cose ha implicazioni su ciò che si fa o, nell’ambito più specifico delle scienze sociali, che il modo in cui si produce la conoscenza su un particolare aspetto della realtà sociale ha implicazioni su ciò che si conosce e ha effetti sulla realtà che ci si propone di conoscere.
Interrogarsi sulle relazioni esistenti tra l’azione individuale e la realtà, sulle connessioni tra la percezione, la conoscenza personale e le caratteristiche costitutive del mondo esterno, sono forse una caratteristica essenziale dell’essere umano e hanno da sempre e in ogni contesto avuto un rilievo consistente e problematico. Il verbo riflettere segnala questa particolare azione umana, ma si tratta di una segnalazione generica e non priva di confusione. Infatti, almeno nella lingua italiana comune, riflettere rimanda ad almeno tre piani di significato distinti – tutti rilevanti per questa discussione, ma che è bene tenere separati sul piano analitico. In primo luogo segnala l’atto stesso di interrogarsi sullo statuto della realtà e delle proprie azioni; assume il significato di meditazione, ponderazione, valutazione; rimanda alla capacità cognitiva di essere consapevoli della propria capacità performativa e del legame che unisce desideri, azione e risultati. In secondo luogo esprime una valutazione sulla natura della relazione che si ipotizza esistere tra desideri, conoscenza, azione e realtà. In questo caso si presenta un’ulteriore differenziazione: da un lato, tale relazione può essere indicata come immediata, diretta, di corrispondenza puntuale e fedele, come quando si usa il termine riflettere per segnalare il rispecchiare o il manifestare; dall’altro, può essere presentata in forma più problematica, parziale, evocativa, come nel caso in cui si evidenzi soprattutto il significato di influire, rimandare, lasciare trasparire. La pluralità semantica del termine evidenzia che ogni riflessione sulla riflessività inevitabilmente rimanda a un campo complesso di questioni correlate; campo che definisce uno spazio entro cui dare senso a questioni epistemologiche (come arriviamo a sapere ciò che riteniamo sapere), a questioni di agency (quale ruolo ha l’attore sociale nel definire la realtà; quanto l’azione può essere considerata legata alla volontà soggettiva e quanto a vincoli strutturali), a questioni identitarie (come mi posso ri-conoscere nei miei pensieri e nelle mie azioni).
L’importanza del concetto di riflessività per le scienze sociali ha inevitabilmente portato a una sedimentazione nel termine di diversi significati, tutti sicuramente importanti per la riflessione sull’epistemologia, la teoria, la metodologia e la pratica delle scienze sociali ma che, nondimeno, sottolineano aspetti diversi e non sempre strettamente coerenti tra loro. Solo a titolo di esempio e senza la pretesa di essere esaustivi, è possibile evidenziare questi significati associati al termine riflessività nelle scienze sociali:
§ Capacità cognitiva di riflettere, di considerarsi soggetti capaci di azione;
§ Capacità cognitiva di spiegare / realizzare consciamente ciò che si fa (MILL, 1843);
§ Capacità di anticipare, in un dialogo interiore, le possibili risposte dell’Altro e includerle nelle nostre azioni (MEAD, 1934 – Interazionismo simbolico);
§ Capacità di inserire l’osservatore e le sue caratteristiche nell’osservazione (GOULDNER, 1970);
§ Capacità di prendere distanza dalla doxa – dal dato-per-scontato incorporato nelle categorizzazioni utilizzate (BOURDIEU, 1982; Post-strutturalismo);
§ Capacità di prendere distanza dall’oggetto di studio (epistemologia scientifica vs epistemologia pratica) (BOURDIEU, 2001);
§ Capacità di assumere uno sguardo situato, consapevole delle limitazioni e delle possibilità date dalla specifica collocazione sociale (HARAWAY, 1991; COLLINS, 2015; bell hooks, 1991; WOOLGAR, 1988);
§ Ricorsività radicale (GARFINKEL, 1967): in ogni momento del suo svolgersi l’azione costituisce – cioè mantiene, altera o, comunque, elabora – il senso del contesto in cui si dispiega ed è a sua volta costituita da esso;
§ Ricorsività tardo moderna (GIDDENS, 1990, MELUCCI, 1998, BECK, 1992): la capacità di agire nel mondo e di riflettere criticamente sulle nostre azioni in modo che sia possibile ricostruire come agiamo e inserire gli esiti di questa riflessione nelle nostre azioni in modo da rimodellare la realtà del mondo;
§ Riflessività dialogica (BAKTIN, 1981) (sociale/relazionale): sottolinea che il significato è nello scambio, nella risposta effettiva (non anticipabile) che l’Altro dà alle nostre azioni;
§ Riflessività sociale: condizione sociale di messa in discussione costante delle conoscenze e delle interpretazioni della situazione che costituisce lo spazio di costruzione di significati e pratiche condivisi.
Nella variabilità di queste concezioni della riflessività è possibile ricostruire almeno tre grandi insiemi di significato: (1) la riflessività come riflessione del soggetto agente e conoscente su di sé e sulle proprie pratiche; (2) la riflessività come processo ricorsivo in cui i prodotti della conoscenza e dell’azione vengono costantemente incorporati nelle conoscenze e nelle azioni, modificandole; (3) la riflessività come processo sociale, come pratica relazionale di produzione di significati e di azione nell’interazione.
Tutti questi aspetti della riflessività sono importanti per le scienze sociali e la predominanza data a un aspetto sugli altri non dipende da una possibile e stabile gerarchia di merito e di valore assegnabile ai diversi significati attribuiti alla riflessività; dipende molto più dalle situazioni e dalle domande della ricerca, dall’orientamento teorico da cui si parte e dall’approccio etico e politico che si assume.
L’attenzione alla riflessività come strumento di riflessione su di sé e sulle proprie pratiche è fondamentale per sviluppare consapevolezza sul carattere costruito e processuale della conoscenza sociale: aiuta a riflettere su che cosa significa fare ricerca sociale e su come le azioni intraprese sul campo, le categorie analitiche che applichiamo nell’interpretazione, le domande che muovono la ricerca, le nostre caratteristiche personali – età, genere, collocazione istituzionale, appartenenza a gruppi sociali riconoscibili (etnici, religiosi, politici, culturali) – influenzano ciò che siamo in grado di osservare e il tipo di conoscenza sociale che siamo in grado di produrre.
Questo tipo di riflessività ha contribuito notevolmente ad arricchire la metodologia delle scienze sociali, screditando la semplicistica idea positivista che fosse possibile e sufficiente osservare i processi sociali in modo distaccato e razionale, dall’alto e senza scendere in campo, per poterne cogliere il ‘vero’ significato. Pur se a volte rischia di esaurirsi in ‘egologia’ (una riflessione del soggetto sul soggetto; un ripiegamento della ricerca sull’osservazione del ricercatore) (WACQUANT, 1992), un certo grado di riflessione su se stesso del soggetto che fa ricerca contribuisce a collocare il ricercatore – con le sue caratteristiche, il suo corpo, le sue emozioni, i suoi pregiudizi, le sue simpatie e antipatie, i suoi interessi – nel processo della ricerca, producendo una costante riflessione su ciò che si fa e ciò che si è e il rapporto che tali caratteristiche hanno con la ricerca che si produce. Non è necessario seguire fino in fondo la proposta di Alvin Gouldner (che, negli anni ’70, poneva come fine ultimo della sociologia riflessiva l’approfondimento della consapevolezza del sociologo – rischiando in questo modo di perdere l’oggetto della ricerca e di ridurre la ricerca sociale a una forma particolare di auto-analisi orientata all’aumento dell’autoconsapevolezza del soggetto conoscente) per riconoscere che il ricercatore non è ‘distaccato’ rispetto al suo oggetto di ricerca, che non può produrre una ricerca puramente ‘oggettiva’ o ‘neutrale’, che le sue caratteristiche influenzano il suo rapporto con l’oggetto di ricerca e i dati che riesce a raccogliere.
É stato soprattutto il movimento delle donne a porre attenzione al carattere ‘situato’ dell’osservatore e a sollecitare una riflessione su come affermazioni di conoscenza che si presentino come assolute e universali in pratica finiscono per riprodurre e reificare le esistenti relazioni di potere (HARDING, 1987; HARAWAY, 1988). Riflessività, in questo caso, vuole essere uno strumento per smascherare e decostruire le affermazioni ‘universali’ di conoscenza, mostrandone il carattere ‘parrocchiale’, l’inevitabile dipendenza non solo dalle caratteristiche e dagli interessi del ricercatore ma anche dalle condizioni strutturali e dai rapporti di potere che ordinano il campo di ricerca e la posizione, in esso, del ricercatore. La riflessività promossa dal pensiero femminista insiste sul carattere situato di ogni conoscenza, che è sempre conoscenza prodotta da qualcuno, in un particolare momento, in una particolare situazione, con interessi particolari e che tende a strutturare la realtà secondo specifici rapporti di potere (ANDERSON, 2020). Sottolinea che la conoscenza è sempre coinvolgimento, partecipazione e responsabilità; che ogni conoscenza nel campo sociale che si vuole presentare come neutrale e universale non fa altro che occultare i rapporti di potere che la rendono possibile e che contribuisce a riprodurre e consolidare. La riflessività situata invita a prendere posizione, a ‘scendere in campo’. Denunciando la parzialità di ogni forma di conoscenza e la dipendenza di ciò che si può conoscere dalla posizione da cui si osserva, è un riflessività ‘politica’ che invita a un’identificazione esistenziale con i più marginali. La riflessività situata richiede molto più di una semplice elencazione delle caratteristiche identitarie del ricercatore; deve considerare modi alternativi di conoscenza, modi alternativi di azione, posizioni diverse – da quelle privilegiate di chi è investito istituzionalmente nel ruolo di ‘ricercatore’ – da cui guardare al campo di ricerca (SWEET, 2020). Deve assumere una posizione dal margine (bell hooks 1991), la posizione di chi è posto ai margini; perché il margine è una posizione di marginalità ma anche una posizione di distanza dalle logiche di potere e dal dato-per-scontato su cui si regge lo status quo.
Bourdieu (2001) insiste sulla necessità di andare al di là di una riflessione sulle caratteristiche individuali del produttore di conoscenza per focalizzarsi sulle condizioni strutturali e sui rapporti di potere che definiscono la posizione del ricercatore nel campo della ricerca. Riflessività, in questo caso, implica una esplorazione sistemica delle «categorie del pensiero impensate che delimitano il pensabile e predeterminano il pensato» (BOURDIEU, 1982, p. 10) mentre guidano la realizzazione pratica della ricerca sociale (WACQUANT, 1992, p. 33). Seguendo Bourdieu, la riflessività richiede non tanto una introspezione intellettuale quanto piuttosto un’analisi e un controllo sociologico permanenti della pratica di ricerca e di produzione di conoscenza. Riflessività implica, in questo caso, una riflessione sui condizionamento sociali di chi parla/fa ricerca/scrive, riconoscendo l’influenza che la sua posizione sociale ha su ciò che produce come conoscenza sociale. Implica riconoscere il fondamento sociale delle categorie che applichiamo alla realtà sociale per analizzarla; riconoscere che tali categorie hanno una genesi socio-storica situata, cioè sono inevitabilmente colorate dall’habitus – dall’interiorizzazione delle condizioni strutturali – del ricercatore. Per Bourdieu, la riflessività riguarda il sociologo il cui lavoro consiste nella ricostruzione dell’universo dei condizionamenti che determinano i comportamenti e la struttura della realtà sociale (BOURDIEU; WACQUANT, 1992). La riflessività è una specifica competenza professionale che assicura al sociologo una conoscenza privilegiata del mondo sociale. Per Bourdieu, per acquisire una conoscenza oggettiva (ma non positivista e astorica) sul sociale, il sociologo deve ‘ritornare su se stesso’, cioè applicare a sé stesso e al proprio lavoro gli strumenti critici delle scienze sociali. Questo implica la capacità da parte del ricercatore sociale di impiegare gli strumenti di ricerca tipici delle scienze sociali per oggettivare la propria posizione nel campo della ricerca e il proprio lavoro di ricerca (BOURDIEU, 2001). La riflessività epistemica proposta da Bourdieu consiste nelle pratiche attraverso cui la scienza sociale, prendendo se stessa come oggetto, si serve dei propri strumenti concettuali per comprendersi e controllarsi (PAOLUCCI, 2011). Questo tipo di riflessività è un modo per differenziare e caratterizzare la ricerca sociale dai processi di produzione della realtà sociale, di cui è comunque parte, ponendola su un piano di riflessione diverso, più ‘oggettivo’ e ‘critico’. Applicare la riflessività epistemica significa includere nell’analisi delle scienze sociali osservazioni e considerazioni sul ricercatore, i suoi modelli teorici, il suo percorso di formazione alla disciplina, la sua relazione con l’oggetto della ricerca, la sua posizione nel campo dell’accademia.
Questo tipo di riflessività delle scienze sociali – tanto la riflessività che invita il ricercatore a una costante auto-analisi delle propria pratiche e dei propri pensieri, quanto quella più politica che invita a tener conto della posizione sociale del ricercatore e dei rapporti di potere che strutturano il campo della conoscenza sociale – che potremmo definire riflessività metodologica, promuove un processo costante di riflessione, comparazione e verifica degli scopi della ricerca al fine di apprendere come apprendiamo e di utilizzare tale conoscenza per migliorare le nostre pratiche e le nostre conoscenze (MORLEY, 2015). Si tratta di un processo che promuove consapevolezza delle caratteristiche del ricercatore e di come queste influenzino necessariamente ciò che si conosce – consentendo di vedere e conoscere alcune cose e non altre, favorendo certi tipi di relazioni con il proprio oggetto di ricerca e ostacolandone altre. La riflessività metodologica è utile per avere consapevolezza del carattere situato e parziale di ogni conoscenza sociale, che rende conto necessariamente di una parte specifica e parziale della complessità, dell’ambivalenza e della contingenza dei processi sociali. Aiuta inoltre ad assumere uno sguardo critico, interrogandosi sugli assunti impliciti che muovono la ricerca e l’interpretazione delle situazioni, sulle categorie di senso comune, gli interessi e i rapporti di potere che orientano il ricercatore e definiscono la sua posizione all’interno del campo della ricerca.
Un secondo modo di intendere la riflessività consiste nel sottolineare il carattere ricorsivo che lega azione, conoscenza e realtà sociale. In sociologia, questa idea di riflessività è legata, da un lato all’etnometodologia, dall’altro all’idea di modernità riflessiva sviluppato, tra gli altri, da Giddens, Beck e Melucci.
L’etnometodologia utilizza il termine riflessività per riferirsi al carattere “incarnato” delle pratiche sociali, cioè al fatto che «le attività attraverso cui i membri della società producono e gestiscono situazioni di relazioni quotidiane organizzate sono identiche ai procedimenti usati dai membri per renderle “spiegabili” (account-able)» (GARFINKEL, 1967, p. 1).
Il concetto si riferisce a quella speciale caratteristica delle azioni sociali per cui, perché un’azione sociale sia possibile, riconoscibile come tale e dotata di senso, devono essere presupposte le condizioni della sua produzione; produzione che a sua volta contribuisce alla costruzione di un senso condiviso entro cui collocare e riconoscere tale azione. Segnala cioè il necessario carattere di circolarità che lega ogni azione ai suoi contesti, sottolineando come esista una piena equivalenza tra descrivere e produrre un’azione, tra comprensione ed espressione di tale comprensione. Descrivere una situazione è costruirla e costruire una situazione è possibile solo entro una serie di presupposti – che nella maggioranza dei casi rimangono necessariamente impliciti – che rendono sensata e fattibile tale costruzione.
Questo significa che per poter agire praticamente è sempre necessario “conoscere” fin dall’inizio le situazioni in cui si agisce; detto altrimenti, non è possibile agire praticamente senza dare per scontati tutta una serie di “saperi pratici condivisi e di senso comune” che consentono agli attori agenti di riconoscere, dimostrare e rendere osservabile gli uni agli altri il carattere razionale delle loro pratiche. Un operatore sociale impegnato per la riduzione del danno nell’ambito delle tossicodipendenze non può agire e dare ragione delle proprie azioni senza ricorrere a termini e concetti, impliciti e non ritenuti necessari di ulteriore spiegazione, che fanno riferimento a teorie, classificazioni, saperi comuni sulla normalità e sulla devianza, su che cosa possa essere definito e considerato droga e dipendenza, su cosa sia un esperto, un’istituzione, un progetto, una relazione di aiuto, e così via. Nello stesso tempo, le sue azioni e le spiegazioni che egli e altri danno delle sue azioni contribuiscono a dare senso ai concetti impliciti di senso comune nonché a renderli capaci di dare senso e di essere usati per produrre spiegazioni e descrizioni.
La riflessività evidenziata dall’etnometodologia è “essenziale” perché inevitabile, costitutiva di ogni pratica e di ogni spiegazione (LYNCH, 2000). È inoltre “banale” perché parte fondante e imprescindibile di ciò che tutti sanno o che si presume sappiano e “priva di interesse” per chi è attivamente impegnato nell’azione e nella produzione di spiegazioni perché non si ritiene generalmente necessario mettere in discussione il dato-per-scontato. Riflessività è in questo caso completamente distinta dalla capacità di riflettere sulle proprie azioni: chi agisce spesso lo fa senza essere consapevole del carattere riflessivo delle proprie pratiche, né è interessato a sottoporre a scrutinio accurato le proprie azioni e i contesti pratici in cui sono attuate. Ogni tipo di pratica, di descrizione e di interpretazione – da quella degli utenti di un servizio a quella degli operatori, fino a quella di eventuali analisti o ricercatori interessati a studiare quel particolare servizio – è necessariamente e inevitabilmente riflessiva, ricorsivamente legata a definizioni mondane, cioè di senso comune, condivise e non definitivamente esplicitabili al di fuori del contesto in cui sono prodotte.
Le indicazioni etnometodologiche aiutano a diffidare della possibilità di giungere a spiegazioni e pratiche “oggettive”, valide in modo universale, indipendentemente dal loro contesto. Aiutano altresì a mettere in discussione una presunta differenza sostanziale nelle pratiche, nei metodi e nella verità tra il sapere prodotto dagli attori comuni e dagli osservatori esperti. Questi ultimi possono avere degli interessi specifici, cioè possono essere interessati a rilevare la riflessività endogena (come gli attori comuni costruiscono la loro realtà attraverso pratiche e spiegazioni), ma non possono sfuggire alla riflessività referenziale (come gli osservatori costruiscono le loro pratiche e la loro conoscenza) (POLLNER, 1991). Il punto di vista etnometodologico, pur non negando l’importanza conoscitiva di una capacità di riflessione, anche radicale, che sia in grado di analizzare le pratiche stesse di conoscenza come immerse in processi, concetti e pratiche già dati per scontati e costitutivi del contesto entro cui si rendono spiegabili e plausibili, considera questa stessa riflessione critica come irrimediabilmente riflessiva, cioè immersa in un contesto di presupposizioni e pratiche da cui è impossibile sfuggire e che non può essere descritto in modo autonomo ed esaustivo. Si può utilmente mettere in evidenza che una particolare classificazione o una particolare pratica produce di fatto gli oggetti di cui tratta – ad esempio illustrare come la definizione di una “categoria a rischio” non solo descrive, ma letteralmente crea il proprio oggetto d’attenzione – ma anche questa analisi critica non può sfuggire al proprio carattere riflessivo.
Una seconda prospettiva sulla riflessività come ricorsività è legata alla riflessione sulla società tardo moderna (o seconda modernità, postmodernità, o, appunto, modernità riflessiva). L’idea sviluppata, seppure con toni e sfumature diversi, da Giddens, Beck, Lash, Melucci e Bauman (solo per indicare gli autori più noti) pone come caratteristica centrale delle società moderne contemporanee lo scrutinio costante delle conoscenze e delle attività e la costante inclusione dei prodotti di queste conoscenze e attività nei corsi successivi di conoscenza e azione. In questo caso, la riflessività non costituisce una caratteristica dell’osservatore, ma una caratteristica strutturale del sistema sociale moderno. La condizione della modernità contemporanea costituisce una radicalizzazione dei processi alla base della società moderna. Seguendo Weber, la modernità può essere caratterizzata come un processo di disincantamento del mondo tradizionale, un’applicazione costante della razionalità ad ambiti in precedenza governati dalla tradizione, dall’affetto, dal pianissimo delle relazioni personali (WEBER, 1919). A partire dalla seconda guerra mondiale, la modernizzazione assume una forma riflessiva (BECK, 1992): oggi il disincanto (che nella prima modernità aveva come bersaglio i privilegi di ceto e le immagini religiose del mondo) investe la comprensione della scienza e della tecnica caratteristiche della società industriale classica (l’idea stessa di progresso e sviluppo), le modalità della vita familiare e lavorativa, i ruoli maschili e femminili, la razionalità e la coerenza come valori. Nella modernità riflessiva, le scienze si confrontano con i loro stessi prodotti, i loro difetti e i loro effetti collaterali. La scienza diviene sempre più necessaria al funzionamento sociale ma sempre meno sufficiente per la definizione socialmente vincolante dell’autorevolezza delle conoscenze. Si assiste a una de-monopolizzazione da parte della scienza delle pretese di conoscenza e il contemporaneo proliferare di conoscenze ‘altre’, dal basso, diffuse, radicate nelle pratiche e nell’esperienza. Gli ‘oggetti’ della ricerca scientifica divengono anche i suoi ‘soggetti’; i destinatari della conoscenza divengono co-produttori attivi. La distinzione tra osservatore e osservato si fa più sfumata e complessa. Non è l’osservatore che grazie alle proprie competenze e alla posizione privilegiata da cui guarda l’osservato ad avere il monopolio della comprensione della realtà. È piuttosto la loro relazione che costituisce al tempo stesso l’oggetto e il prodotto dell’osservazione (MELUCCI, 1998). La riflessività – il ritorno ricorsivo delle conoscenze e delle pratiche su loro stesse e l’incorporazione costante di quanto prodotto socialmente nelle produzioni sociali future – diviene il principio organizzativo della tarda modernità. La modernità riflessiva richiede e produce processi di individualizzazione (BECK, 1992; BECK, BECK-GERNSHEIM, 2001) e lo sviluppo delle capacità personali (MELUCCI, 1996), concetti che sottolineano che gli individui sono spinti, dalla logica stessa della modernizzazione, a divenire imprenditori di sé stessi (BRÖCKING, 2016; DU GAY, 1996), a divenire auto-riflessivi, a monitorare costantemente le proprie azioni, a compiere scelte e a considerare le loro azioni e il loro destino come conseguenza delle loro scelte piuttosto che come conseguenza delle forze strutturali che regolano i rapporti di potere all’interno della società (ATKINSON, 2010).
Un ulteriore modo di intendere la riflessività ne sottolinea il carattere sociale. Quella che potremmo definire riflessività costruzionista o performativa (PELS, 2000; AUTORE, 2003) è attenta alla dimensione dialogica, alla costruzione della conoscenza sul sociale come processo sociale; sostiene che ogni conoscenza e ogni investigazione della realtà sociale ha un carattere circolare, interazionale, ed è proprio in questo che risiede la sua capacità esplicativa. Né il ricercatore, né i soggetti osservati sono depositari di un sapere in sé oggettivo, di una interpretazione privilegiata della realtà sociale – ed entrambi lo sono all’interno dei loro rispettivi campi, per gli scopi pratici per cui agiscono, per ciò che possono cogliere dalla loro specifica posizione. La ricerca sociale, l’interrogazione sulla consistenza della realtà sociale, è una pratica sociale specifica diversa dall’agire quotidiano a fini pratici; è una pratica che apre uno specifico campo sociale che consente di produrre forme specifiche di conoscenza sul sociale. Non si tratta di una conoscenza ‘superiore’, ‘più accurata’ o ‘più vera’, ma di una conoscenza specifica che contribuisce ad ampliare la nostra capacità di interagire con i nostri contesti di azione; che contribuisce ad ampliare il vocabolario a nostra disposizione per raccontare storie su di noi e sul nostro mondo, per immaginare come modificarlo. Questa conoscenza è prodotta nel processo stesso della ricerca, non è prodotta dal ricercatore che osserva, dall’alto, il suo campo, né è la traduzione meccanica delle verità pratiche degli attori nel lessico e nel campo delle verità epistemiche del ricercatore. È un lavoro costante di traduzione reciproca che produce un nuovo lessico e una forma specifica di conoscenza.
La riflessività costruzionista è dialogica (BAKHTIN, 1981). Più che evidenziare l’auto-riflessione evidenzia la ricorsività, il processo circolare entro cui si produce conoscenza e azione sociale. Come osserva Kim Fortun (2000):
Reflexivity calls for the ethnographer to position herself. Recursivity positions her within processes she affects without controlling, within competing calls for response. Reflexivity asks what constitutes the ethnographer as a speaking subject. Recursivity asks what interrupts her and demands a reply. Thinking in terms of recursivity is a way to hold ethnography responsible for advocacy. Attention to recursivity foregrounds how every articulation – whether ethnographic or in direct advocacy – operates on previous articulations, inserting every move and every word within multiple discourses and worlds. (FORTUN, 2000, p. 13)
Questo non significa rinunciare a sviluppare l’auto-riflessività del ricercatore ma suggerisce di non limitarsi a ciò, perché il processo di ricerca sociale non si limita a cogliere una realtà che esisterebbe nella sua verità e nella sua autenticità al di sotto delle nebbie e degli inciampi che derivano dallo sguardo del ricercatore, inevitabilmente limitato dal suo posizionamento sociale. Piuttosto, il processo di ricerca è parte dei modi in cui, collettivamente e pubblicamente, ci confrontiamo e ci scontriamo nel tentativo di imporre un ordine – momentaneamente e parzialmente – condiviso al fluire dell’esperienza.
Promuovere una riflessività relazionale significa riconoscere che il termine “riflessivo” si applica non al ricercatore ma alle relazioni tra ricercatore e altri soggetti partecipanti alla ricerca. Riflessività non si esaurisce completamente, dunque, né nella capacità di introspezione e di annullamento della distanza “esperienziale” tra osservatore e osservato – la capacità di non disgiungere mai il lavoro dalla condotta di vita, come auspica Wright Mills (1959) –, né nella capacità di esplicitare le condizioni e le scelte connesse al lavoro di ricerca. Si tratta piuttosto di favorire l’attivazione e il mantenimento di uno spazio dialogico, in cui gli assunti e la condizione situata della conoscenza possano essere evidenziate piuttosto che occultate e, quindi, essere sottoposte a revisione, confronto, confutazione.
L’idea di riflessività costruzionista vuole sottolineare come la produzione di sapere sociale necessiti di spazi istituzionali favorevoli al dialogo e al confronto. La conoscenza sociale nasce nel momento in cui azioni e interpretazioni si confrontano e il significato emerge nel momento della risposta che, per essere a sua volta compresa, attende un’ulteriore risposta. La conoscenza sociale si concretizza quando c’è una rottura che richiede la sospensione del pensare-come-il-solito (del ricercatore e degli attori sociali). La sorpresa, la contestazione, l’inciampo, l’incomprensione, la diatriba, l’interrogazione, la richiesta di chiarimenti e giustificazioni, il conflitto sono i momenti che rendono riflessiva – ricorsiva, rivista sulla base dei propri assunti – e sociale la conoscenza sul sociale.
L’apertura e il mantenimento di uno spazio dialogico che consenta una riflessività relazionale non può essere garantito dalla semplice volontà del singolo ricercatore. Si tratta invece di favorire quelle condizioni collettive che consentano un confronto continuo sulla produzione di sapere sociale.
Leandro R. Pinheiro: Differenti autori e approcci segnalano contesti e pratiche che sembrano di non aver a che fare con il tema della riflessività, non sempre nelle letture strutturali. Potrei citare, per esempio, il filone disposizionalista (Pierre Bourdieu; Bernard Lahire), la sociologia pragmatica della critica (Boltanski), da un lato e l’approccio di una certa estetizzazione del capitalismo (Lipovetski e Serroy) e gli autori della modernizzazione riflessiva propriamente (Beck; Giddens; Lash), dall’altro.
Tuttavia, il suo approccio sottolinea la necessità di una compreensione “costruzione sociale della realtà”. Quindi, se ci atteniamo alla vita quotidiana e al suo rapporto con elementi strutturali, Le sembra che si potrebbe parlare sui rapporti sociali riflessivi con sfumature conforme il dominio sociale di azione e le condizioni per questo (attivismo politico; costruzione dell'identità/differenza; agenzie morali; pratiche astute)?
Enzo Colombo: La prospettiva costruzionista occupa uno spazio rilevante nelle scienze sociali contemporanee. Non si tratta dunque di stabilire una contrapposizione tra oggettivismo o realismo e costruzionismo, si tratta piuttosto di dettagliare i processi di costruzione sociale della realtà, le condizioni di possibilità, le poste in gioco nel processo, il modo in cui le costruzioni sociali sono rese, da un lato, ‘oggettive’ e ‘reali’, dall’altro contestate e modificate. La sensibilità verso un approccio costruzionista è ben presente negli autori che ha citato e costituisce un aspetto centrale nella loro idea di riflessività.
Bourdieu e Lahire, ad esempio, insistono sul fatto che la relazione tra il sociologo e il suo oggetto di ricerca non è ‘oggettivamente’ data ma costruita nel processo di ricerca. Vedono però in questo un possibile inciampo per la ricerca sociale o, comunque una difficoltà nell’individuare e nel legittimare una conoscenza ‘specifica’ della sociologia, diversa dalla conoscenza pratica del sapere comune. Per ovviare a questa difficoltà, suggeriscono l’acquisizione di una coscienza epistemologica che sia in grado di liberare il ricercatore da un empirismo ingenuo, nonché di dotarlo di una ‘riflessività’ sulla sua posizione sociale, sul suo ruolo, sui suoi assunti cognitivi e ideologici, sulla sua posizione nel campo della produzione di conoscenza sociale, sui suoi interessi, i cui effetti diretti e indiretti influenzano il rapporto con l’oggetto di analisi. Vedono inoltre nella capacità di ‘riflettere’ sui contesti storico-culturali in cui si esercita la pratica di ricerca una condizione fondamentale per l’oggettivazione del lavoro di indagine sociologica. La riflessività – una questione che, per Bourdieu, riguarda prima di tutto il ricercatore – consiste nel ricostruire la fitta rete degli obblighi interiori (disposizionali), dell’interiorizzazione delle condizioni strutturali della propria collocazione sociale (habitus), come pure la fitta rete dei vincoli esteriori (contestuali) (BOURDIEU, WACQUANT, 1992; LAHIRE, 2007; FAOUBAR, 2015). La sociologia disposizionale bourdesiana introduce una rottura epistemologica tra il sapere dell’attore sociale, inteso spesso come prodotto secondario delle strutture sociali, e il sapere sociologico, che grazie alla riflessività propria del ricercatore riesce a fornire un’interpretazione ‘scientifica’, cioè distaccata dai vincoli strutturali e dalle costrizioni situazionali, rivelandosi quindi più ‘oggettiva’.
Nella proposta di una sociologia pragmatica della critica di Boltanski (2009), la riflessività non è una caratteristica specifica del ricercatore sociale, ma un caratteristica dell’attore: la necessità/capacità degli esseri umani di rivedere le proprie azioni e quelle degli altri in modo da giustificarle moralmente. Questa capacità riflessiva implica anche che i soggetti reagiscano alle interpretazioni che vengono date alle caratteristiche e alle loro azioni, incluse quelle del sociologo. In questo caso, la riflessività, da lavoro critico del ricercatore diviene soprattutto lo studio delle esperienze di ‘critica’ dal basso veicolate dagli attori stessi, nella loro pratica, nelle loro narrazioni, nei loro diversi motivi di sofferenza e di scontento, di resistenza e di ribellione a partire dalle concrete situazioni della vita vissuta. Uno degli aspetti interessanti di questa idea di riflessività è la proposta di prendere sul serio l’azione dei soggetti e di ancorare la ricerca sociale in una rigorosa dimensione empirica, ponendo come suo contributo specifico una articolata descrizione dell’azione situata dei diversi attori sociali. Persiste comunque uno iato tra l’azione sociale e l’interpretazione sociologica che si presenta come meta-interpretazione, meta-critica, una costruzione di secondo grado che utilizza come sua materia prima le costruzioni degli attori sociali impegnati nelle loro pratiche quotidiane.
L’idea di modernità riflessiva, come discusso in precedenza, fornisce degli spunti interessanti per sviluppare la dimensione ‘ricorsiva’ della riflessività. Come l’idea di ipermoderno di Lipovetsky (ma potremmo citare molte altre prospettive critiche contemporanee), l’idea di modernità riflessiva tende a rappresentare tendenze generali che si presentano sicuramente suggestive e capaci di cogliere dinamiche fondamentali dei processi sociali contemporanei ma rischiano di perdere di vista la complessità, la diversità, l’importanza della collocazione sociale, le asimmetrie di potere. Sono strumenti utili per formulare domande di ricerca, ma richiedono di essere contestualizzate, sfumate, relativizzate e applicate in modo selettivo nell’analisi empirica. Tendono a considerare la riflessività come una questione strutturale, un modo di organizzazione della complessità sociale che si impone ai soggetti.
Penso sia importante guardare alla riflessività come a un processo, a una modalità specifica di produzione delle realtà sociale; un processo storicamente e culturalmente situato e radicato non (solo) nel ricercatore, non (solo) negli attori sociali e non (solo) nelle dimensioni contestuali e strutturali, ma nel tipo specifico di relazioni che si instaurano nel farsi della ricerca sociale. Il mio interesse è nell’analisi delle pratiche quotidiane, mondane, in cui i soggetti producono nell’interazione il senso delle loro azioni e dei contesti in cui si trovano ad agire e nel modo in cui questo senso delle azioni viene riflessivamente rielaborato (come trova ‘risposta’) nelle pratiche di chi fa ricerca sociale. Con Boltanski, ritengo che la sociologia sia una disciplina empirica e, con Bourdieu, che le scienze sociali costituiscano un campo specifico – con le sue logiche, i suoi criteri di valutazione, con specifici capitali che consentono distinzione e posizionamento all’interno del campo, con conflitti e poste in gioco specifiche – ma non esclusivo di produzione di sapere sul sociale.
Ritengo dunque che le scienze sociali siano soprattutto un’impresa storica e situata. Si propongono un rendiconto sistematico (attento alle relazioni e alle connessioni) delle questioni contemporanee e utilizzano metodi scientifici (logica, matematica, sperimentazione – deduzione, induzione, ermeneutica), ma i risultati che ottengono non consistono in principi scientifici, nel senso tradizionale che essi hanno nelle scienze naturali. Producono discorsi (nel senso di Foucault), regimi di verità, partizioni, dispositivi. Ritengo che le scienze sociali siano un’attività sociale pratica ragionevole, non un atto puramente razionale (di conoscenza del nascosto, del vero). Seguendo Rawls (2001), una pratica ragionevole ha un carattere sociale, pubblico e politico (non necessariamente ciò vale per un’attività razionale). La ragionevolezza stabilisce i termini di un accordo politico di base su cui i soggetti si incontrano. Questo significa che la conoscenza sociale prodotta dalle scienze sociali ha un carattere politico: concorre a ordinare il mondo, vincolando le interpretazioni e i comportamenti. Da qui un’idea di riflessività che sia, nello stesso tempo, una competenza metodologica specifica e un processo sociale di costruzione di azioni e significati che si attua nel farsi della ricerca sociale, nella dimensione dinamica e processuale della produzione – condivisa, contestata, situata, ragionevole – di uno specifico discorso delle scienze sociali sulle relazioni sociali.
Non si tratta, dunque, di rivendicare per il ricercatore sociale una capacità di comprensione della realtà superiore a quella degli attori, né di aiutare gli attori sociali a sviluppare la critica di cui sarebbero autonomi portatori. Si tratta piuttosto di attivare un campo relazionale che produce una specifica comprensione della realtà sociale che, se diviene ‘discorso’ riprodotto e tradotto in altri ambiti, contribuisce ad ampliare il nostro vocabolario condiviso per attribuire senso all’esperienza e contribuisce a configurare la realtà sociale in un modo specifico (un discorso che pure ha molteplici alternative, è situato e temporaneo, sottoposto a critica, un discorso che privilegia alcune voci e alcuni interessi, silenziandone altri, un discorso, infine, capace di creare forme specifiche di inclusione e di esclusione). Un’idea di riflessività ancorata alla prospettiva costruzionista tende a sottolineare che la conoscenza e la realtà del mondo non sono indipendenti dal coinvolgimento dei soggetti agenti e conoscenti, e che tale coinvolgimento dà forma alla realtà, all’azione e alla conoscenza. In questa prospettiva, riflessività indica il tentativo e la necessità di superare la distinzione tra realtà oggettiva e realtà soggettiva, tra osservatore e campo di ricerca. Come osserva Alberto Melucci (1998, p. 22), la svolta riflessiva
implica una ridefinizione profonda del rapporto tra l’osservatore e il campo. Si potrebbe dire che dalla dicotomia osservatore/campo si passa alla connessione osservatore-nel-campo. Tutto ciò che è osservato nella realtà sociale è osservato da qualcuno, che si trova a sua volta inserito in relazioni sociali e in rapporto al campo che osserva. Per queste ragioni il ruolo dell’osservatore e il rapporto tra l’osservatore e il cosiddetto oggetto di ricerca diventano un punto critico della riflessione sullo statuto della ricerca sociale. (MELUCCI, 1998, p. 22)
Penso, dunque, che sia interessante provare a sviluppare un’idea di riflessività che valorizzi la complessità e proceda secondo un metodo basato sulla ricerca della sintesi e del supplemento. Una riflessività che non si contrapponga secondo una logica di alternativa radicale alla riflessività essenziale dell’etnometodologia, alle forme tradizionali e moderne di riflessività, alla capacità di sottoporre ad analisi continua il modo in cui si sta osservando o intervenendo o alla capacità di introspezione dell’osservatore ma che sappia integrare queste prospettive includendo una riflessione sulle condizioni sociali che rendono possibile l’osservazione e sulle implicazioni che essa ha sulle sue stesse condizioni di possibilità e sulla realtà sociale che contribuisce a conoscere e a costruire.
Assumere la prospettiva di una riflessività costruzionista implica accettare un certo grado di relativismo; riconoscere che più che pervenire a conoscenze di leggi universali capaci di spiegazioni deterministiche e certe, il sapere sociale consente differenti interpretazioni locali, che sono più o meno idonee a rendere conto delle domande che le hanno generate e che sono risultato di selezioni attive, evidenziano alcuni elementi occultandone altri. Significa inoltre evidenziare il carattere situato della conoscenza sociale, cioè il fatto che la posizione da cui si guarda, le caratteristiche sociali, le aspettative, gli interessi e la sensibilità dell’osservatore definiscono la realtà che si intende osservare. Significa infine considerare le diverse posizioni non come equivalenti, ma segnate da asimmetrie di potere e disparità di risorse, strutturalmente più attrezzate per vedere alcune cose e per ignorarne altre. La realtà sociale appare in questo modo definita come un campo conflittuale in cui gli elementi posti in rilievo sono sempre una parte delle risorse disponibili e sono il risultato di accordi, scontri e mediazioni tra posizioni e interessi differenti. La conoscenza di questo campo e l’azione in esso possibile appaiono così risultato di forme più o meno apertamente conflittuali di dialogo e di confronto. Il punto di vista riflessivo costruzionista sceglie di porre in primo piano la dimensione relazionale: la riflessività si può manifestare soprattutto dove esiste un reale confronto tra posizioni e voci capaci di esprimersi, dove esistono le condizioni per un possibile conflitto; se si pensa che la conoscenza e il mutamento si producono solo come fatti sociali, la riflessività non può stare nella testa del singolo osservatore, ma può esistere solo come prodotto di una relazione, come fatto collettivo. Il processo riflessivo si attiva principalmente nel momento in cui si è chiamati a mettere in discussione la propria conoscenza, quando si è interpellati e spinti a fornire buone ragioni per le proprie interpretazioni e le proprie azioni.
L’apertura e il mantenimento di uno spazio dialogico che consenta una riflessività relazionale non può, dunque, essere garantito dalla semplice volontà del singolo ricercatore. Si tratta piuttosto di favorire quelle condizioni collettive che consentano un confronto continuo sulla produzione di sapere sociale. Il ricercatore può comunque favorire la creazione di questo spazio, ad esempio mostrando al lettore le scelte compiute nei momenti rilevanti della ricerca di campo, oppure cercando di restituire adeguatamente nella scrittura la complessità e la polifonia che caratterizzano l’esperienza di ricerca, inglobando commenti, critiche e back talk relativi al proprio lavoro. Ma le ammonizioni etnometodologiche relative alla possibilità di eludere ogni riflessività radicale, come le perplessità sulla piena sincerità del ricercatore (SALZMAN, 2002) rendono difficile pensare che sia possibile raggiungere una piena “trasparenza” dei processi di costruzione della ricerca e delle sue narrazioni.
L’apertura di uno spazio dialogico di riflessività implica specifici posizionamenti etici.
Una prima mossa etica necessaria consiste nell’assumersi la responsabilità della posizione di osservatore, esperto od operatore. Vale a dire, riconoscere la dimensione di potere e di privilegio connessa al mandato sociale, più o meno istituzionalizzato, che consente di “entrare nel mondo di altri”, di intervenirvi e di poterne parlare; riconoscere che osservatore e osservato hanno interessi diversi e diversa possibilità di produrre conoscenza socialmente riconosciuta. L’osservatore non può ignorare l’autorevolezza dei suoi discorsi e delle sue descrizioni, né ignorare le aspettative che la sua stessa presenza crea sia per le persone che occupano il campo che sta osservando, sia per ambienti esterni che rendono legittima la sua presenza (colleghi, istituzioni, associazioni, mass media, committenti diversi). Non può ignorare che entra nel campo, che la sua stessa presenza costituisce in modo decisivo, grazie alle competenze e al ruolo sociale di cui è collettivamente accreditato. Non può quindi considerarsi “pari agli altri”, ma deve rendere conto delle sue competenze e del mandato sociale che rende possibile e legittima la sua azione. Ciò implica il riconoscimento della differenza di potere tra osservatore e osservati, dell’irriducibilità degli interessi del primo a quelli dei secondi e viceversa, implica quindi un certo grado inevitabile di conflitto. L’osservatore è chiamato a riflettere non solo sulle caratteristiche degli attori o dei contesti che osserva, ma anche sui propri obiettivi e sulla relazione che riesce a instaurare con chi vuole osservare. Nel riflettere sulla relazione instaurata, assume posto di rilievo anche la capacità di sottoporre a valutazione critica l’asimmetria di potere che il ruolo di osservatore o di esperto assicura. Infatti egli è sempre presente nel setting di analisi o di intervento con le sue caratteristiche biografiche personali ma anche con un “mandato”, cioè a nome di un’istituzione, di un gruppo professionale, di un soggetto collettivo più o meno esplicito che assicura un certo grado di autorevolezza alla sua interpretazione e alla sua azione.
Evitare che tali probabili conflitti si risolvano unicamente sulla base della forza delle parti in campo (asimmetricamente favorevoli all’osservatore) rende utile una seconda opzione etica: facilitare l’espressione delle voci e delle posizioni più flebili o espresse in forme non usualmente riconosciute come appropriate o legittime. Una scelta etica che rende necessario schierarsi e impegnarsi a favorire la parte più debole, orientarsi all’ascolto e al rafforzamento dei discorsi più marginali e più facilmente tacitati. È alla parte più forte che tocca l’onere del contenimento del conflitto, della giustificazione delle proprie azioni e dell’apertura all’accoglienza e all’ascolto. L’atteggiamento riflessivo non può essere richiesto alla parte più debole come pre-condizione per l’ascolto e il dialogo, ma può essere obiettivo dell’osservatore costruire le condizioni necessarie per una riflessività relazionale, in cui le diverse posizioni e le diverse prospettive possano reciprocamente confrontarsi e scontrarsi con pari dignità, anche se difficilmente con pari potere e pari autorevolezza.
Infine, definire le condizioni per una riflessività relazionale implica un terzo impegno etico: riconoscere che la diversità di prospettiva dell’altro introduce aspetti impensati che possono favorire i processi di produzione di conoscenza e di trasformazione della realtà. Significa riconoscere ai soggetti la capacità di costruire il senso delle proprie azioni (MELUCCI, 1996) e la capacità di trasformare la realtà, non solo quella in cui vivono, ma anche quella dell’osservatore.
Ciò porta al nodo centrale di una prospettiva riflessiva costruzionista: l’idea che la riflessività possa essere garantita soprattutto da processi sociali e da arrangiamenti istituzionali, piuttosto che da volontà individuali. La riflessività costruzionista – intesa come capacità di presa di distanza critica dalle proprie costruzioni e come consapevolezza del carattere costruito della conoscenza sociale – non è un tratto ‘intrinseco’ alle capacità cognitive, né può essere attivata semplicemente su base volontaristica. La riflessività costruzionista prende sostanza nel confronto, nel conflitto. Parafrasando Bakhtin, potremmo dire che il suo senso emerge sempre come differito, si dispiega nel tempo dell’attesa della risposta dell’Altro. Lo sforzo riflessivo, dunque, si sostanzia nel consentire all’Altro di rispondere. È riflessiva – in senso costruzionista – un’affermazione, un’osservazione, una ricerca che sollecita attivamente la critica, il confronto, la discussione. É riflessiva – in senso costruzionista – una società che attiva spazi di discussione, che protegge la voce del dissidente, che assicura che ci possa sempre essere una risposta. La riflessività, come ricorsività, consiste principalmente in questo costante dialogo sociale sulla realtà sociale, in modo che si sia chiamati continuamente a dare ragione delle proprie ragioni. Richiede che siano presenti nello spazio pubblico prospettive e narrazioni diverse che consentano la presa di posizioni, l’assunzione di responsabilità, la messa in discussione della voce dominante.
Concretamente, cercare di produrre un sapere sociale riflessivo in prospettiva costruzionista significa mettere in atto mosse che favoriscano il dialogo (inteso anche come conflitto, disaccordo, confutazione), il confronto. Oltre a inglobare le indicazioni della riflessività metodologica (collocare il ricercatore nel campo, parlare delle modalità di produzione della ricerca), oltre ‘prendere sul serio’ gli attori sociali e considerarli produttori attivi di conoscenza, oltre a considerare le condizioni strutturali e le dinamiche contestuali che producono riflessivamente organizzazione sociale – tutti fattori a cui una buona ricerca sociale a fatica può rinunciare – un riflessività costruzionista cerca di mettere in atto degli accorgimenti che favoriscano la formazione di ambiti di dialogo e di confronto. Questo può avvenire sia nel campo di ricerca sia nel campo sociale. Nell’ambito specifico della ricerca e della metodologia delle scienze sociali, alcuni esempi possibili (ma è utile essere aperti e saperne inventare altri) possono essere azioni volte a favorire forme “istituzionalizzate” di riflessività relazionale, cioè forme “esterne” e “pubbliche” di confronto e di critica. Una prima possibilità potrebbe essere quella di istituire uno o più referenti esterni: colleghi che si fanno carico di seguire passo dopo passo l’evolversi della ricerca qualitativa. I referenti esterni potrebbero costituire utili attivatori di riflessività relazionale, sia stimolando il ricercatore a una maggiore consapevolezza rispetto alle proprie scelte, sia favorendo l’emergere di punti critici, sia, infine, assicurando una maggiore garanzia di controllo professionale sull’attività di ricerca. I referenti potrebbero inoltre trovare spazio autonomo nella restituzione dei risultati – nel testo finale della ricerca – ricostruendo, dalla loro prospettiva, la storia naturale della ricerca di campo. La scrittura della ricerca è un ulteriore campo in cui il ricercatore può stimolare, in molti modi diversi, una riflessività costruzionista (AUTORE, 2016).
Una seconda possibilità potrebbe consistere nel favorire ricerche svolte in gruppo o almeno da due ricercatori (AUTORE e NAVARINI, 1999; ERICKSON e STULL, 1998; SALZMAN, 2002; BIELER et al, 2021). La contemporanea presenza sul campo stimola processi di scambio, di confronto (e di controllo) che attivano una riflessività relazionale, dando maggiore rilevanza e spazio ai momenti “dialogici” di costruzione delle interpretazioni e dei “fatti” etnografici. Anche in questo caso, si potrebbe introdurre direttamente nella prassi di ricerca quella dimensione processuale che costituisce l’elemento peculiare della riflessività costruzionista.
Una terza possibilità potrebbe consistere nel favorire la formazione di network interessati a discutere e criticare il lavoro di ricerca. Network che potrebbero riguardare sia il gruppo dei pari, favorendo una maggiore visibilità delle ricerche e luoghi per confrontarsi non solo sul “prodotto finito” ma anche sul processo di produzione; sia un più ampio insieme di soggetti interessati dalle ricerche.
Questo apre all’importanza di ancorare la riflessività costruzionista non solo nello spazio delle scienze sociali ma, in modo più ampio, nello spazio pubblico. Pur se ‘discorso’ specifico, la conoscenza delle scienze sociali diviene parte del processo di produzione sociale della realtà quando si inserisce in ambiti di discorso più ampi, quando diviene ‘politica’, nel senso di parte del modo in cui si prendono decisioni sulla cosa pubblica, sul vivere insieme, sulla definizione della situazione. Questo è per me il significato di ‘sociologia pubblica’: una sociologia che aspira non a suggerire al principe come agire, non a pretendere voce privilegiata nelle decisioni pubbliche, ma una sociologia che sappia provocare discussione, che fornisca linguaggi, concetti, punti di vista che stimolano il confronto, che pongono ipotesi che vengono ritenute meritevoli di attenzione, di discussione e di confutazione. La riflessività costruzionista non è una necessità e non si genera spontaneamente, è un prodotto sociale ed è favorita da un contesto sociale aperto, che valuta positivamente lo spazio pubblico, che incoraggia la partecipazione. È favorita da contesti sociali in cui c’è spazio per il dissidente, per colui che pone le domande scomode, che dice ciò che si preferirebbe non sentire. Assicurare uno spazio per il dissidente consente di garantire una riserva di energia per l’attivazione di processi riflessivi. Consente la difesa di spazi di critica e di interpellanza – elementi fondanti ogni riflessività relazionale – che si oppongano alla stabilizzazione di punti di vista egemonici, alla formazione di poteri che assumano evidenza di normalità e di inevitabilità. La presenza del dissidente può garantire la possibilità continua di sovversione del discorso dominante, della prospettiva di osservazione e di interpretazione usuale. Richiama l’osservatore e l’operatore a giustificare le proprie azioni, a fornire buone ragioni e quindi a interrogarsi su ciò che sta facendo. Introduce elementi potenziali di rottura e di sorpresa che costituiscono la materia prima per la costruzione di processi riflessivi. Se non esiste rottura, la necessità e la possibilità di interrogare e interrogarsi, di porre domande, è molto improbabile che possa attivarsi un processo riflessivo.
Leandro R. Pinheiro: Nell’ambito della sociologia dell’infanzia ci sono ricerche che considerano i bambini come soggetti di agenzia, come se stessero ormai sperimentando un certo paradosso della scelta. Dall'altra parte, vengono considerati come produttori di cultura e portatori della novità dall'avvento della loro nascita, come sostiene Hannah Atendt (2007) partendo dal principio della natalità.
In altro modo, la sociologia della gioventù segnala la necessità di considerare i giovani come co-produttori nei loro processo di socializzazione. Per entrambi i casi, in America Latina, le situazioni di precarietà (impoverimento; immigrazione; indebolimento dei diritti umani) sembrano di spingere gli attori in modo drastico alla necessità di intermediazioni. Quindi, riprendendo le sue elaborazioni sulla riflessività e sulle narrative, come problematizzerebbe le ripercussioni per la ricerca sui processi di socializzazione e/o individuazione, soprattutto con i giovani?
Enzo Colombo: Applicare una riflessività costruzionista allo studio dei bambini e dei giovani adulti – le mie ricerche si concentrano soprattutto su giovani tra i 18 e i 30 anni di età – significa innanzitutto, nella mia opinione, mettere in dialogo le domande del ricercatore con le esperienze, gli interessi e le pratiche dei giovani. Non far prevalere né le prime né le seconde ma costruire un campo in cui si interrogano e si rispondono reciprocamente. Significa anche non porre questo campo di dialogo in un vuoto astorico e asociale ma inserirlo nelle dimensioni strutturali e nei vincoli contestuali della realtà osservata. Questo significa prima di tutto evitare eccessive generalizzazioni. I ‘giovani’ come categoria generica va vista con sospetto: è necessario introdurre la complessità, la variabilità, le asimmetrie, la posizione sociale, le competenze e le capacità, le categorizzazioni che favoriscono inclusione o esclusione. E, nel farlo, penso sia indispensabile utilizzare uno sguardo intersezionale (CRENSHOW; 1991; COLLINS, 2015), considerando come le specifiche forme di categorizzazione si intersecano, non necessariamente e semplicemente sommandosi, per dar origine a specifiche e situate forme di discriminazione e di privilegio.
Nel farsi della ricerca questo può significare non ridurre i giovani a un’unica categoria, definita dagli stereotipi o dagli assunti generalizzanti di un pensiero pigro, ma problematizzare le diverse posizioni sociali – le diverse unità di generazione, se si vuole seguire Mannheim (1952) – che caratterizzano il mondo giovanile. Questo significa riconoscere la specificità della prospettiva, dell’azione, della voce e del sapere dei giovani senza però rinunciare a evidenziarne la polifonia e la complessità. Significa ‘prendere sul serio’ i giovani come portatori di specifici interessi e specifici saperi sul sociale. A questo fine, personalmente trovo utile, come prospettiva epistemologica e come punto di partenza per la formulazione delle domande di ricerca, applicare una prospettiva generazionale, cioè guardare alle specificità e alle rotture che caratterizzerebbero specifici gruppi di giovani oggi. Assumere una prospettiva generazionale può costituire un utile punto di osservazione per cogliere le dinamiche della costruzione della realtà sociale come processo in cui la capacità di azione dei soggetti e le dimensioni strutturali istituzionalizzate si intrecciano condizionandosi reciprocamente e trovando spazio per adeguamenti dinamici. In questo modo è possibile vedere l'esperienza dei giovani non solo come caratterizzata da perdita, devianza, vuoto, sospensione, differimento e incapacità. L’attenzione si sposta invece verso i processi continui attraverso i quali le azioni sociali e i significati sociali sono prodotti come tentativi di creare la realtà sociale come “una sezione finita dall’infinità priva di senso del divenire del mondo, alla quale è attribuito senso e significato dal punto di vista dell’essere umano” (WEBER, 1904 [1958], p. 96).
La generazione può essere considerata come uno strumento euristico che punta alle discontinuità che caratterizzano le esperienze culturali, sociali e professionali dei giovani, senza dare alla generazione un riferimento normativo. Ciò significa evidenziare come la generazione possa essere un quadro comune, dove i significati di esperienze diverse e mutevoli trovano un terreno comune. La generazione è un riferimento utile ogni volta che cerchiamo di dare un senso all’esperienza di individui e gruppi che devono affrontare situazioni in cui le parole, i concetti, le routine e i modelli di comportamento che hanno ereditato dalle precedenti coorti non sono più soddisfacenti o utili. Prima che uno status, definito da comuni esperienze storiche o comuni orientamenti all’azione, la generazione è definita dalla necessità di costruire in modo nuovo il significato dell’esperienza quotidiana. La generazione è innanzitutto definita dall’esperienza soggettiva – non necessariamente pienamente consapevole – dell’inadeguatezza di ciò che si ha a disposizione per gestire la complessità e la novità delle situazioni mondane, dell’impossibilità di seguire routine consolidate e condivise. Concepito come strumento euristico, il concetto di generazione può permetterci di porre nuove domande, di sfidare le categorie esistenti, di mettere sotto esame il dato per scontato. Cosa c’è di ‘nuovo’ se ci poniamo nella posizione storico-sociale dei giovani? Cosa ci dicono sul cambiamento sociale le pratiche e i significati messi in atto dai giovani? Piuttosto che cercare di abbozzare un elenco di caratteristiche che riassumano una supposta ‘essenza’ delle giovani generazioni attuali, ritengo sia utile utilizzare la prospettiva generazionale per evidenziare le condizioni storiche che spingono i giovani a trovare nuovi percorsi di pensiero e di azione per affrontare i diversi e specifici contesti sociali, economici e culturali in cui devono agire. In questa prospettiva, la ‘generazione’ aiuta «a esplorare i nuovi inizi, a concentrarsi su ciò che sta emergendo dal vecchio e a cercare di cogliere strutture e norme future nel tumulto del presente» (BECK, 2016, p 3).
Inoltre, nel fare ricerca con i giovani diviene evidente come sia importante attivare un campo accogliente per la riflessività: non si tratta di considerare i giovani portatori di un sapere più vero che deve solo essere riportato all’orecchio del potere (o dell’opinione pubblica), tantomeno di pensarli soggetti passivi che devono essere formati al loro stesso interesse, ma di saper attivare uno spazio ‘educativo’ in cui il dialogo e il confronto consenta di produrre un sapere diverso rispetto a quello delle singole parti, un sapere diverso da quello inziale, un sapere ‘in progress’. Per rendere l’idea di questo spazio nuovo di produzione di sapere non posso fare di meglio che citare Bakhtin in una sua riflessione sul lavoro di Dostoevskij:
Il nostro punto di vista non afferma affatto una passività dell’autore, il quale non farebbe altro che operare un montaggio degli altrui punti di vista, delle altrui verità, rinunciando del tutto al proprio punto di vista, alla propria verità. Non si tratta affatto di questo, ma di una interazione completamente nuova, particolare tra la propria e l’altrui verità. L’autore è profondamente attivo, ma la sua attività ha un carattere particolare, dialogico [...]. Dostoevskij spesso interrompe, ma mai soffoca le voci altrui, mai le dà una fine ‘a proprio nome’, cioè a nome di un’altra coscienza, la sua. (BAKHTIN, 2000, p. 322).
La ricerca con i giovani – specialmente con i bambini in situazioni precarie – rende evidente l’asimmetria di potere tra il ricercatore i soggetti che sono oggetto della sua ricerca, ponendo con forza la questione della responsabilità del ricercatore. La responsabilità – intesa come capacità di rispondere, come respons-abilità – è un elemento centrale della riflessività costruzionista descritta in precedenza. È il modo per attivare e mantenere attiva la produzione di sapere sociale condiviso, è la capacità di fornire risposte su ciò che si sta facendo e dicendo. In questo senso la ricerca con i bambini e con i giovani è anche uno spazio che stimola la riflessività costruzionista perché bambini e giovani spesso pongono la domanda indiscreta, o chiedono in continuazione il perché delle cose, o semplicemente lanciano quello sguardo interrogativo e sorpreso di fronte a qualcosa di non pienamente compreso che il ricercatore non può lasciare cadere ma deve cercare di reintrodurre nella sua ricerca, come segnale di qualcosa che richiede un’ulteriore mossa, un’ulteriore comprensione, un’ulteriore giustificazione. La ricerca con bambini e giovani rende particolarmente evidente che la conoscenza sociale nasce dalle risposte che le domande generate dal campo – attori, situazioni, contesti, asimmetrie, poteri – stimolano e da come queste risposte modificano il campo e risuonano nuovamente nelle condizioni del campo così trasformato.
La riflessività costruzionista è sempre una riflessività situata, si attiva in base alla caratteristiche del contesto e dei partecipanti, delle loro specificità, delle loro priorità, dei loro interessi e dei loro rapporti di forza. Non può dunque essere tradotta in una ricetta da applicarsi in tutte le situazioni. Le dimensioni che però ritengo possano delineare il campo della ricerca in modo che possa sviluppare riflessività costruzionista sono: uno spazio adeguato per ‘le voci dal campo’, per il punto di vista dei soggetti che si incontrano nella ricerca; una chiara e rigorosa presentazione della voce interpretativa dell’autore, che non rinuncia alla sua responsabilità di autore ma che giustifica, argomenta, rende problematica la propria interpretazione della situazione; una collocazione puntuale della ricerca nel contesto strutturale più ampio, evidenziando le risorse e i vincoli che derivano dalla specifica collocazione sociale dei soggetti coinvolti, le loro capacità personali, le forme di categorizzazione che generano inclusione ed esclusione, privilegi e discriminazioni. È l’articolazione costante di queste tre dimensioni che apre spazio per una comprensione dialogica.
Leandro R. Pinheiro: Per concludere, non potevo fare a meno di interpellare sull’articulazione tra riflessività e sfera politica, e lo faccio proponendo un contrasto tra scenari di azioni attuali. Da un lato, che ripercussioni potremmo evidenziare riguardo le azioni politiche giovanili? Dall’altro, potremmo rintracciarne qualche associazione tra la governamentalità in vigore in Brasile (ma non solo qui), in situazione di pandemia e governo di estrema destra, e la produzione sociale della riflessività? Ciò, secondo me, significa indagare anche sulla consistenza o sulla sfumatura del fenomeno in contesto latino americano.
Enzo Colombo: Nella mia prospettiva, la riflessività riguarda il processo sociale di produzione di discorso – specifico delle scienze sociali – a partire da altri discorsi – quelli degli attori sociali – per promuovere discorsi nello spazio pubblico – cioè, tradurre le esperienze e i problemi in questioni ‘politiche’. La riflessività è ciò che mantiene ‘fluido’ questo dialogo tra discorsi, nella consapevolezza del carattere costruito, situato e dinamico della comprensione della realtà sociale. La riflessività intende segnalare – e orientare la riflessione su – la circolarità e l’interconnessione che esiste tra conoscenza della realtà e realtà, tra sguardo soggettivo e percezione oggettiva, tra azione e interpretazione. Segnala quindi un processo sociale – non una capacità individuale – attivabile completamente solamente sul piano sociale. Per questo motivo la riflessività costruzionista dipende dal contesto storico, sociale e politico. Non è una necessità dell’azione e della comprensione umana, ma una sua possibilità. Possibilità che per essere attuabile ha bisogno di specifiche condizioni contestuali. Come sottolineato in precedenza, la riflessività costruzionista intende segnalare il carattere dialogico della costruzione sociale della realtà e quindi non risiede (unicamente) nella consapevolezza individuale. La riflessività viene pienamente attivata quando si è chiamati a rispondere, sta nella risposta dell’altro – specie quando è inattesa, spiazzante, critica – più che nella testa del singolo. Una temperie politico-culturale in cui porre domande indiscrete è considerato un attentato all’identità collettiva, dove il dissidente è guardato con sospetto e lo straniero come una minaccia non costituisce un ambito favorevole allo sviluppo della riflessività.
Il ricercatore sociale si può impegnare per rendere la propria ricerca e i suoi risultati il più possibile riflessivi in senso costruzionista, ma questo non è sufficiente. Da un ponto di vista sociale, una ricerca è riflessiva – nel senso che diviene un processo ricorsivo che consente l’inclusione dei prodotti della ricerca sociale nella fatticità del reale, contribuendo a modificarlo e a stimolare nuove ricerche e nuove modifiche – solo se viene ‘discussa’, se provoca dialogo e dibattito. Il risultato di una ricerca non è nelle mani del solo autore; il sapere sociale diviene tale quando diviene collettivo, circola, diviene lessico comune, prospettiva considerata degna di discussione. Come osserva Bakhtin l’autore non è il solo responsabile del contenuto del discorso che produce; ne partecipa anche il destinatario, almeno così come l’immagina l’autore: si scrive differentemente a seconda che ci si rivolga a un certo pubblico oppure a un altro. Ma non è mai possibile sapere con certezza come l’altro agirà: il significato è sempre posticipato, è nell’attesa della risposta, è al ‘di fuori’ dell’autore perché è un fatto sociale.
Per questo la riflessività non può essere considerata solo una questione metodologica, risolvibile all’interno della disciplina o, ancor meno, all’interno della singola ricerca. La riflessività, intesa in senso costruzionista, può trovare realizzazione solo in contesto sociale dove ci sia spazio per il confronto e la critica. Dove prevalgono posizioni manichee, dove il dissenso e la critica sono visti come minaccia, dove l’emergenza, la protezione, la difesa – tutte prospettive gnoseologiche che focalizzano sul presente e sul passato e vedono come problematiche la complessità e il cambiamento; prospettive che inibiscono il dialogo perché vedono l’Altro come una minaccia al Sé e al Noi – sono le preoccupazioni principali, non c’è molto spazio per la riflessività dialogica. Nella situazione attuale, credere nell’importanza di creare spazi per ricerche riflessive implica anche un impegno socio-politico costante per contrastare il diffondersi di una governamentalità che fa dell’emergenza la ragione per la riduzione della democrazia, dell’eccezione la sospensione del diritto (AGAMBEN, 2003), della semplificazione la discriminazione della variabilità e della differenza, del richiamo all’autenticità, all’identità o al ‘popolo’ la negazione della complessità e dell’ambivalenza dell’esperienza umana.
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